Interviste

Ape, Case History, la fotografia di un percorso.

Uno si inventa di tornare a fare quello che faceva quando aveva vent’anni
ricercando la sua posizione e mettendo in discussione tutto questo tempo.
Un’avventura che comincia durante la registrazione di un disco, quasi per
scherzo, e che poi diventa una grande certezza dal punto di vista delle emozioni, perché nel momento in cui si rende conto di essere innamorato della cosa, pochi elementi lo fermano. È l’inizio di un grande viaggio fatto di The Leftovers, di Satriale2, di #1978 e di Alba Meccanica. Lui si chiama Ape. Prima di inventarsi di tornare a fare il rapper, la sua identità artistica si era fermata a delle local hit di cui pochi avevano perso memoria. Adesso è Ape. Payoff: Ho una barra per tutti.

Perché Case History? Perché certe cose non si vedono spesso. Certo, succede che una persona riprenda a seguire le sue vecchie passioni, ma con l’attitudine di chi lo fa per hobby. In questo caso, invece, c’è stato un progetto, un’idea, una vision. Tornare. E, per farlo, tutta la fatica che certe cose richiedono. Fare ingresso in una scena artistica che si è lasciata tanto tempo prima è sempre una bella botta. C’è dietro un lavoro di fanteria difficile da descrivere, perché passa da dettagli e particolari, contatti, relazioni, sincerità. E poi c’è il flow che è cambiato, ci sono le sonorità che non sono più le stesse di prima, c’è la sfida di tornare a essere quella voce, ma coi parametri della contemporaneità. Ci sono le date, le emozioni, le idee. Ci sono i testi, gli studi di registrazione, le basi. L’aver chiara la direzione. Grandi cose, soprattutto se appartengono a un artista che si definisce indipendente e autoprodotto, che fa quasi tutto da solo, facendosi aiutare solo da quei due o tre amici fidati che lo accompagnano lungo le date di questa incredibile avventura. Io scrivo grandi cose, ma non parliamo di budget milionari e non parliamo di milioni di stream. Io scrivo grandi cose perché spesso le cose grandi sono le più semplici.

Se fosse una case history scriveremmo. È possibile concretizzare un desiderio che a vent’anni non abbiamo valorizzato quanto avremmo dovuto? Sì.
That’s the case.
La prima parola che utilizza è competenza.

La competenza c’è. Non sono il rapper più forte d’Italia, non lo sono stato nemmeno ai miei tempi, diciamo, d’oro, però ho più voglia di molti altri, ho più voglia anche di chi fa mainstream oggi. Ed è una voglia, permettimi di dire, disinteressata, perché tanto so già che non è una roba dove devo svoltare, dove devo diventare ricco, etc. È una roba dove, alla fine, se vendo le duecentocinquanta copie che ho stampato di Alba Meccanica in quattro mesi è una figata. Però a livello numerico è polvere. Però il tutto dà la voglia.

Scusa ma tu nel 2003, quando facevi i pezzi, pensavi che sarebbe stato il tuo lavoro?

Purtroppo non mi sono mai visto così, e penso di aver sbagliato in quella fase. Avevo ancora troppi pregiudizi su me stesso, preconcetti, troppe resistenze mie, che mi impedivano di uscire con la forza con cui esco adesso. È un po’ anche la maturità che ti porta a prendere consapevolezza dei tuoi mezzi no? Ne avevo poca. Ero solo, perché non avevo di fianco a me gente che potesse avere questo ruolo di “coach” per spronarmi. Ne ho avuti ma sono stati situazioni episodiche. E quindi no, ai tempi non ne avevo. Probabilmente con la testa di adesso, a suo tempo, avrei fatto un percorso differente ma la vita è così, va bene così, non bisogna recriminare. Il fatto di essere tornato adesso a far le cose a me va bene.

Tu dici che la differenza tra chi ha la voglia e chi non ce l’ha, è come dire il ragazzo e l’uomo. Però in effetti l’incoscienza è da ragazzi.

Incoscienza se lo traduci in un altro modo potrebbe essere il carattere di credere in una cosa dove nessuno crede. Quindi per me è carattere. E più vai avanti più hai carattere, più hai convinzione…infatti non ti nascondo che nell’ultimo periodo sto cercando di… senza fare il discografico, senza fare cose per le quali potrei guadagnare qualcosa, ma semplicemente con il puro gusto di farlo, sto cercando di interagire con ragazzi che appartengono alla generazione prima della mia, quindi hanno sui trent’anni, secondo me spaccano però, per questa sindrome di merda della Brianza, della provincia, che ti porta a proporti come underrated fa sì che la gente li percepisca come underrated e li porta a non ottenere quello che meritano.
Siccome io sta cosa l’ho capita, dopo anni, non ti nascondo che, una buona parte di quello che mi interessa fare adesso nel rap e nell’ambiente è dare quel qualcosina in più come consiglio e come supporto a persone che stanno magari vivendo la stessa situazione che ho vissuto io quando ho fatto quei dischi: Venticinque, Generazione, Morgy Mo e via dicendo. Per cui ti dico alla fine va avanti chi ha carattere, chi ha voglia. La gente può dire quello che vuole ma tutti quelli che stanno avendo successo adesso, nel mainstream, poi ti può piacere o meno la musica, quello è un altro discorso prima di tutto ha carattere. Ha carattere e carattere vuol dire avere consapevolezza dei propri mezzi e capacità di esporsi, di far diventare credibile anche la ca*ata peggiore del mondo. Questo non sempre coincide con la buona musica eh, sia chiaro. Però è un elemento importante soprattutto nel rap dove l’egotrippin’ è un po’ alla base no? Possiamo dire quello che vogliamo, comunque alla base del rap c’è l’egotrip. Quindi nel 2003 io non ragionavo così, adesso ragiono così, oggettivamente sono bravo a rappare, sono sempre stato forte e quindi mi viene naturale anche fare pezzi o robe che spaccano. Poi che abbiano una visibilità minore rispetto ad altre cose che escono è legata a tanti fattori. Fattori che non hanno nulla a che vedere con la qualità della roba che faccio, però, sconto ad esempio il fatto di aver saltato un paio di generazioni essendo sparito dal 2009 fino al 2015, salvo qualche apparizione, cioè io mi sono perso proprio tutta una fascia di rapper che la mia roba l’hanno sentita per sbaglio no? Per qualche featuring. Però va bene così, uno nella vita fa delle scelte e ne paga le conseguenze. E adesso sono qua sereno, non ho bisogno di un’etichetta, non ho bisogno di promoter che organizzano, promettono e poi alla fine fanno solo il loro gioco. Faccio tutto da solo e va bene così. E se posso, se posso dare una piccola chance, ma anche una stupidaggine, un live con cento euro di rimborso a un ragazzo della mia zona, io sono contento di farlo.

Come l’hanno presa i tuoi amici sta roba qua?

Mah allora. In maniera abbastanza contrastante. Nel senso che, per assurdo, i migliori feedback io li sto avendo da gente che non mi ha conosciuto di persona nella fase in cui facevo i dischi Vibra e mi ha scoperto dopo. Tanti amici hanno semplicemente catalogato: “ah sì sei rimasto a far le robe, bello però…” Sembra quasi che quelli della mia generazione siano cultori del rap classico, ok, però poi se fai rap classico ti dicono “vabbè è sempre la stessa roba”, se provi a fare qualcosa di nuovo ti dicono “si è aggiornato però fa una roba fuori dalle sue corde”. Questa l’ho capita con The Leftovers, che è un gran disco, con dei bei pezzi, dove ho cercato di rimettermi al passo no, ma non perché voglia essere new school a tutti i costi, però se fai una roba nel 2018, non puoi farla coi suoni del duemila. Se no che la fai a fare? Dev’essere un challenge a livello artistico no? Una roba che ti mette in gioco. Quindi, in realtà, supporto dai miei coetanei, poco. Ne ho trovato tanto nelle nuove leve e nella generazione prima della mia, quella sui trenta. Quando vedo gente sui 20/25, che magari si sono avvicinati e stanno cercando di esplorare tutto il percorso, la nuova scuola e, soprattutto, la golden age, mi piace quando mi riconoscono lo status golden age ma, allo stesso tempo, capiscono che, pur venendo da lì, mi stia mettendo in gioco con le robe nuove, coi suoni new school. Secondo me è la roba più importante.

Secondo te, adesso, il rap ha ancora una funzione sociale?

Come quella pensavamo avesse (e poi è da dimostrare se fosse davvero così). Sì, il problema è che è cambiato, secondo me, il concetto stesso di funzione sociale. Anni fa il discorso di funzione sociale era diverso…..
Ieri mi stavo ascoltando Paris, un suo disco del 1992, lui faceva parte di una roba molto sociopolitica sul discorso dei neri, una roba che negli anni ’90 aveva ragione d’essere. Adesso anche quella roba si è evoluta. È proprio il concetto di tematica sociale. Secondo me oggi lo è più un rapper che ti parla del suo quartiere dove smazzano, che anche lui ci è cascato, piuttosto che di uno che in maniera asettica e un po’ markettara fa uscire un pezzo dove parla dell’argomento sociale sulla bocca di tutti. Si è evoluto anche quel discorso lì. Oggi non devi essere per forza didascalico nell’affrontare un argomento, per dire ho fatto un pezzo dove tiro fuori una tematica sociale. Lo puoi raccontare dal tuo punto di vista, che magari è il punto di vista di quello che spaccia, però riesci comunque ad avere una tematica sociale perché tu dai una fotografia di una situazione. E poi, da ogni situazione, la persona che l’ascolta prende quello che vuole. Perché a differenza di anni fa adesso, con l’evolversi dei social, e con il fatto che la comunicazione dei m ediasia cambiata e la televisione la consideriamo molto meno di prima, la gente le informazioni le recupera da sola, anche il processo di interpretazione dei messaggi è diverso, è meno filtrato. Quindi può essere che un pezzo dove uno parla di quanto si spacca o che suo cugino spaccia nel quartiere, gli dia più un’immagine del disagio di quel posto, che non di uno che sale in cattedra e dice, in maniera didascalica, questa cosa non va
bene.

Fondamentalmente sui social tendiamo a un politically correct che ci fa
essere meno real. Tu pensi che anche in questo il rap abbia conservato una sorta di genuinità della comunicazione?

Ma allora, dovrebbe averla. Con dei dovuti parametri. Io che ho quaranta anni non posso lanciare messaggi o approcciarmi a un social network, con lo stesso atteggiamento di uno di vent’anni. Devi essere credibile. Però il rap necessita di essere più diretto, meno politically correct, meno filtrato. Ma non per forza per parlare male di una cosa o per dire stupidaggini o per inneggiare a qualcosa che non va bene, dev’essere più sfacciato, è sempre stato così, il rap è un genere così; è sfacciato, è una roba dove tu vuoi dire una cosa e la dici. Poi chiaro, io ho una dimensione alle spalle, devo trovare la mia sfacciataggine in una dimensione ben precisa. Uno di vent’anni la trova in un’altra. Uno che fa freestyle e ne ha sedici la trova in un’altra ancora. Però il rap deve essere così.

Se tu fossi con una major, i testi che scriveresti sarebbero liberi come quelli di adesso?

Ma assolutamente sì, le major con me hanno rimesso un sacco di soldi. Se una major avesse creduto in me anni fa e mi avesse prodotto avremmo potuto fare tanti tanti tanti soldi. Perché la roba del conscious, che adesso va, e ci sono tante figure importanti che la portano avanti bene, è la roba che facevamo io e pochi altri quindici anni fa, dieci anni fa. Era solo sbagliato il periodo, le major non erano pronte. Quindi io penso di avere comunque un’attitudine, come approccio, come grinta, come capacità e modo di rappare, molto underground, cioè a me piace andare alle jam. Ho suonato mercoledì, in un posto dove c’era solo una cassa, c’era la cassa spia, che era anche la cassa per chi ascoltava. Cioè folle sta roba no? Quelle cose che dici, l’impianto non suona, però se ci canto io suona, perché ho esperienza, capacità, perché ho voglia di farlo suonare. Io ce l’ho quest’anima underground, però tutte le mie canzoni, tutte le mie robe, tutti i miei dischi potevano essere delle cose che le major avrebbero potuto far funzionare su larga scala. Non è andata e va bene così.

Se domani ti chiamasse una major tu c’andresti?

Non avrei il tempo di farlo, perché io di lavoro faccio altro, ho altre intenzioni, a me adesso piace la dimensione underground. Se mi danno un milione di euro, che vuol dire guadagnare in un anno quello che nella vita faccio in venti, forse anche di più, potrebbe starci. Però ti dico, non è una
roba che mi interessa.

Il tuo essere indipendente è un punto d’onore? O è solo un dato di fatto?

I termini che mi piacciono di più sono “indipendente” e “autoprodotto”, io non ho un’etichetta, faccio tutto da solo dalla produzione ai live alla direzione artistica. Mi aiutano Ill Papi per le registrazioni e la direzione artistica, Bod per quanto riguarda la grafica e la comunicazione, che a oggi è una cosa fondamentale, però sono autoprodotto e indipendente. Voglio avere il controllo delle cose che faccio. Io quando faccio un disco so quando lo sto registrando, so la data in cui deve uscire, conosco la data in cui devo pubblicare il singolo, so quando devo girare in comunicati stampa, so quando devo chiamare le persone dei siti per iniziare a intavolare un discorso, capire con chi fare le interviste in un modo e con chi farle in un’altra. A me questa dimensione va bene.

Quante copie hai venduto da quando hai ripreso?

Non ho numeri esatti ma sono ben visibili le quote degli streaming. Diciamo che coi primi dischi abbiamo sbagliato la stampa, abbiamo esagerato e abbiamo fatto una tiratura un po’ troppo 2000, quindi un po’ di copie sono rimaste, però le sto gestendo. #1978 e Alba Meccanica stanno andando bene, abbiamo fatto tirature limitate da 250 copie e c’è un buon riscontro. Sto notando che, per quanto mi riguarda, più che attraverso lo store, le vendo ai live. Lì dove c’è il contatto. A me piace molto quello che succede nei live. Forse perché sono allergico ai backstage, non mi interessa stare nei backstage, finisci sempre che sei in mezzo ad altri rapper, ci si prende le misure, si fa a chi ce l’ha più lungo,roba che non i interessa… a me piace stare in mezzo alle persone, parlare con uno che mi viene a dire: ti ascolto da dieci anni, mi piace questa canzone perché mi ha dato qualcosa. A me piace quella dimensione lì, perché è quello il bello di fare una roba. Parlare con uno che ti dice, questa roba qua mi è servita per qualcosa. E quindi ti dico, questa qua è la mia dimensione, ai live riesco a interagire, c’è un sacco di gente che si sente lo spettacolo, si prende bene, viene lì, ascolta la roba. La priorità è divulgarlo, farla girare.

Come vivi il palco adesso, rispetto a prima.

Allora, è una botta di adrenalina incredibile, sia il prima che il dopo. È una figata, forse è l’unico motivo per cui fai le robe. Cioè il motivo per cui uno fa un disco dovrebbe essere, suonare dal vivo. E oggi c’è un sacco di gente che ha parecchie views e parecchi streaming e non suona un ca**o. Io ne ho 5000, 10.000, 20.000 quando va bene, ma proprio quando va alla grande e però suono di più. Me li trovo io, me li cerco io, e non è che vado a suonare gratis… Alla fine la dimensione live è quella più importante, è lì che dimostri. Quando non va la cassa spia, quando non va il microfono o quando c’è l’impianto figo, è lì che dimostri no? Per me la dimensione del rap è lì. Chiaramente per fare i live devi fare i dischi.

So di artisti che non considerano alcune situazioni, perché troppo rookie, a scapito di situazioni più pettine.

È gente che ha 100.000 visualizzazioni su youtube, senza andare a prendere il mainstream che è un altro campionato, che però suona una volta all’anno se va bene. Contenti voi va bene così. Volete fare i rapper da camera o da studio? Fatelo. Però poi quando gli stessi fanno un pochino troppo i fenomeni sul discorso underground… sai, se anche per fare una strofa live hai bisogno di tre spalle… io anche le strofe più tirate le faccio da solo. I live li faccio senza spalla. Le spalle che ogni tanto mi raggiungono è gente che ha voglia di raggiungermi, io suono da solo. Io e Ill Papi. Se devi fare una strofa complicata e poi non sei capace di chiuderla, è un’altra roba. Lo dico da uno che si sta rimettendo in gioco, che quando suona spesso dice: “Ciao a tutti, sono Ape, un rapper emergente e questo è il mio nuovo disco” cioè il mio approccio è quello. Non esistono situazioni rookie. Le fai diventare pro tu. Se ti senti rookie diventan rookie anche i palazzetti.

Arrivato a questo punto pensi di poter giocare per la coppa?

No.

Perché?

Perché sono il Leicester.

Ho capito, ma il Leicester il campionato l’ha vinto.

Sì, ma è stato un episodio, adesso dov’è? Io sono il Leicester, faccio bene e voglio continuare a fare le cose, chiaramente ogni anno vorrei cambiare. Quest’anno lo dedicherò ai featuring, ne ho una decina in cantiere e sono tutti importanti perché ho imparato anche a dire di no. Importanti perché magari sono robe di media o grande dimensione o perché sono robe di ragazzi che sono bravi e hanno bisogno di una rassicurazione, magari di un featuring che gli può dare la svolta. E poi mi occuperò delle ristampe quest’anno, dei primi dischi che ho fatto, poi arriveranno le comunicazioni, quindi questa è un’anteprima. Venticinque è già in ristampa, esce a marzo. A parte questo onestamente sono fuori dai giochi. C’è una barra di Glassfinger in cui affermo: “2020 bro, fuori dai giochi tenetevi il titolo, finisco il decimo, poi vado oltre, si chiude un capitolo”. Io ho fatto nove dischi, voglio arrivare al decimo, però non è detto che fatto quello continui. Magari continuo a tirar fuori persone che hanno bisogno di essere aiutate no? Alla fine deve funzionare così, così dev’essere. Ma in qualsiasi cosa, non è solo il rap eh. Qualsiasi roba che abbia a che fare con l’arte. Ci vuole qualcuno che a un certo punto capisce che gli altri vanno supportati. Anche con poco: una mano tesa per rialzarsi, una spinta, una pacca sulla spalla…funziona così.

Cioè dici che il tuo l’hai fatto.

Io potevo anche non rimettermi a fare nulla. Avevo fatto i miei dischi e la gente comunque mi tributava delle cose. Il fatto di fare altri quattro dischi è stato tutto per una questione di voglia, non dovevo dimostrare niente a nessuno, né a me né agli altri. Però poi alla fine sono usciti dei dischi che rimangono e rimarranno quanto gli altri. A te qualche mese fa ho detto: attenzione a The Leftovers, perché fra tre o quattro anni farà la fine di Venticinque. Quando è uscito se lo sono cagato in pochi, adesso lo considerano un classico del rap. Io non ti sto parlando di qualità, ti sto parlando di percezione della gente, che è diverso. Perché oggi purtroppo sono due ambiti diversi. Alba Meccanica è uno dei migliori dischi del 2019, mainstream compreso. È un mio pensiero. I props sono tutti positivi, ha le idee, ha le produzioni, ha l’approccio, ha lo stile, ha il raccontare, ha la musicalità, ha il contenuto. Detto questo, oggi, non è solo quello ciò che ti fa andare avanti o che rende visibile un progetto. è quanto ne parlano. E, il quanto ne parlano, oggi, fa più differenza di quanto vale. Non lo dico da hater, lo sto dicendo in maniera easy. Perché tanto io i traguardi che mi ero prefissato li ho già raggiunti e l’album non è uscito neanche da tre mesi. Però è così. Tu vatti a prendere un sacco di uscite di rapper, ascoltali, ascolta il mio e fai un paragone e poi ci sentiamo e mi dici. Soprattutto incrociando questa percezione dell’ascolto coi feedback e i riscontri che hanno avuto. Ma è normale. Perché come ti dicevo prima, contano la competenza, il talento, la voglia e poi c’è un altro elemento, che è la visibilità che riesci ad avere. Oggi la visibilità fa tutto. Per essere più visibili bisogna essere più personaggi, per essere visibili bisogna avere più agganci e questa è una componente che oggi non può essere trascurata. È una componente su cui io sono molto debole e quindi sconto questa roba qua, ma va bene così. Non è il mio lavoro lo fosse stato avrei colmato anche questa carenza.

C’è stata anche voglia di rivincita in questo percorso?

Ma dici, ma no dai alla fine no, rivalsa più che altro. Non è che ho dovuto dimostrare qualcosa, però diciamo che dà soddisfazione il fatto di essersi rimesso a fare delle cose e vedere che c’è riscontro, comunque che la gente le segue. È solo tutto molto più lento. Per dire, ieri, mercoledì, quando ho suonato, sono rimasto stupito perché ho fatto Borghesia Suburbana e la gente la cantava. Che è uscita nel 2018, sono passati quasi due anni no, capito, è quello che ti dico, è tutto molto più lento. La differenza è la velocità con cui la gente assimila la roba ed è pronta poi a considerarla una roba che ascolta, che spinge che supporta. Perché? Perché arriva più lentamente.
Paradossale però in questo momento di comunicazioni istantanee. Chi riesce però a fare arrivare la sua roba più velocemente alle persone, ha più
riscontri. E chi riesce a farla arrivare più velocemente? Chi comunque è appetibile per un’etichetta, ha dietro una struttura e via dicendo.

Mi viene da pensare che ultimamente lo stream trasformi le canzoni in una sorta di fast food, ascolti un pezzo per un tempo limitato e poi te lo
dimentichi. Mentre c’è sempre quella cosa della canzone difficile, che
all’inizio non ti piace tanto però poi sul lungo termine, ti rimane.

Allora…a me, per dire, Spotify, piace un casino. perché qualsiasi gruppo che senti lo puoi andare a beccare, te lo ascolti e ti fai un’idea. Però sto continuando a comprare ancora i dischi, ad esempio l’altro giorno mi sono arrivati due dischi degli A Tribe Called Quest, che ho completato la collezione così gli ho tutti, ho preso due dischi degli Outkast, ho preso gli ultimi due di G-Eazy e YBN Cordae, che è un ragazzo di ventun anni fortissimo, secondo me è uno dei migliori del momento. Quindi ho questa doppia anima, del cd e dello stream. Però per dire, di Outkast mi è arrivata anche la versione rippata, la sto ascoltando in macchina dal cellulare e i cd non li ho neanche aperti, però so che li ho, ancora sigillati tra l’altro. lo streaming è una figata perché ti permette di ascoltare tutto. Il problema è che adesso esce talmente tanta roba che magari manca una piccola mappa per sapere chi andare ad ascoltare prima o chi è giusto ascoltare. Però se riesci a fare in modo di arrivare alle persone, cioè paradossalmente ti ascoltano in tutto il mondo. Un qualsiasi italiano, lo ascoltano in Alaska e magari se lo pompano, capito?

Non ci sono nemmeno più quei magazine musicali che ti davano il metro sulle nuove release.

Beh, ci sono nella versione online. Io ti dico, quando voglio capire cosa è uscito di nuovo vado ad esempio su un sito che è datpiff.com, vado sulla pagina Instagram, questi ogni venerdì fanno un post con una dozzina di uscite e da lì cerco di andare a ricostruirlo. Un po’ lì, un po’ il mio gusto, un po’ su Instagram segui direttamente gli artisti e sono loro che ti annunciano l’uscita. Alla fine se vuoi riesci a rimanere aggiornato, devi avere voglia.

2017-2020 c’è stato mai un momento in cui ti sei detto: ma cosa sto facendo?

No. Perché se no non mi ci mettevo neanche. C’è stato spesso un momento in cui dicevo: adesso che idea mi invento per la prossima roba da fare. Sempre propositivi.

Facendo la foto di questo periodo quali le emozioni più entusiasmanti, quali invece quelle che hai dovuto affrontare.

È tutto legato ai live. Io prima di ogni live sono isterico. No, isterico è un termine sbagliato. Sono in sbattimento. Penso ai pezzi, penso che mi devo ricordare le strofe, non mi piace stare nei backstage, mi piace un po’ stare in mezzo alla gente. Che quando stai in mezzo a tanta gente, è meglio di essere da soli, quando sei in mezzo a tanta gente sei quasi invisibile. E quindi ho bisogno di pensare, di capire se mi ricordo i pezzi, quindi sicuramente i live continuano a essere per me una fonte di, come dire, nella fase prima, ansia da prestazione. Però già quando sto facendo il primo pezzo, che capisco che ho in mano le redini, è la roba più figa che si possa fare, cioè il palco è la roba più bella. Poi ti rendi conto, tu sali su un palco, a cantare, e la gente è lì che ti ascolta. È una roba incredibile.

Queste cose, all’inizio…

No non me le godevo così, perché ero immaturo, in una fase diversa. Non mi godevo il momento, prevaleva più la parte di sbattimento all’inizio e poi il sollievo per la parte di live andata via: “sì sì tutto bene ok”. Adesso mi godo anche il mentre.

Mi sembra che tu abbia matchato il fatto di essere un artista con il mood imprenditoriale brianzolo del fare fare fare.

È vero. Ma perché i migliori artisti sono operai, in fin dei conti.

Cosa provi adesso quando devi andare in trasferta a fare una data?

È una figata. Il mood live con annessi e connessi inizia da che si parte. è gita. È avventura.

I tre punti.

I tre punti sì, i tre punti, bravo. È come una squadra, dobbiamo prendere i tre punti. Ultimamente li stiamo prendendo sempre. Sì è così, andare in trasferta a prendere i tre punti, bello perché, alla fine guido sempre io, c’è sempre Ill Papi, ci portiamo dietro sempre qualcuno, si cazzeggia, è veramente una roba easy. Alla fine alla base di tutto c’è che ci divertiamo, non c’è la roba della rivalità. Quelle robe lì non fanno parte del mio mondo, non le voglio neanche vedere. Se mi vengono vicino, le allontano anche in maniera brusca.

Cosa intendi per rivalità?

Se vai in un live dove suoni con altre persone, per me è tranquillità, presa bene e star tranquilli. Se vedo che già c’è qualcuno che se la sente, un paio di frasi lo mettiamo al suo posto e se ne sta nel suo. Le cose vanno fatte tranquille, bisogna divertirsi, bisogna essere sereni, non c’è bisogno di fare i duri per dimostrare di essere più forti. Se sei forte, non devi dimostrarlo, lo sei e basta. Quindi noi stiamo facendo tutte situazioni così, io e Ill Papi, poi adesso mi sto tirando dietro i ragazzi della Brianza, Olyo Bollente, Dari, quindi un po’ di gente della zona. Ed è bello, perché io, una cosa che rimpiango, è che questi ragazzi sono usciti quando io stavo già iniziando a fermarmi e quindi non ho mai avuto modo di essere, non dico una guida, perché è un’esagerazione, però una persona con cui confrontarsi, confrontarsi con qualcuno è positivo, è una roba da cui nascono degli spunti. Quella roba lì sto cercando di ricostruirla adesso. I progetti per il futuro sono, più che fare un altro disco, ricostruire quella roba lì. Ho un paio di idee in ballo su un progetto che prevede una serata, uno streaming
e una roba in radio, ci sto lavorando e vediamo di concretizzarlo da ottobre 2020. Tanto tutto l’anno porto in giro live Alba Meccanica, le ristampe dei dischi vecchi che ci saranno, sicuramente una. E poi 2021 vediamo di fare sto decimo disco, che sarà impegnativo perché sarà come la decima Champions del Real Madrid quindi dovrò ingegnarmi bene.

C’è già il titolo?

Non c’è ancora. Figurati. Non c’è ancora. (Rido)
Non c’è ancora.

Intervista a cura di Michele D’amore

Federico

Steek nasce in un piccolo paesino della Sardegna negli ’80 per poi emigrare con la valigia di cartone e una sfilza di dischi hip-hop nella capitale. Durante la seconda metà degli anni ’90 viene folgorato dalla cultura hip hop in tutte le sue forme e discipline, dapprima conoscendo il rap Made in USA, arrivando poi ad appassionarsi al rap Made in Italy grazie ad artisti storici, quali: Assalti Frontali, Otr, Colle der fomento, Sangue Misto e molti altri. Fondatore della page “Il Rappuso” che lo porta a collaborare con tutta la scena rap underground italiana, mette la sua voce e la sua esperienza al servizio di LOWER GROUND con la trasmissione che prende il nome dalla sua creatura “IL RAPPUSO”.

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