Caso Faneto: accuse, reazioni e riflessioni sulla violenza nella scena hip hop

Negli ultimi giorni, il nome di Faneto è diventato uno dei più discussi dell’intera scena rap italiana. Tutto è iniziato quando la sua ex compagna ha pubblicato una serie di contenuti sui social — foto, video e messaggi vocali — in cui documentava momenti di forte tensione e presunti episodi di aggressione. Quei materiali hanno rapidamente iniziato a circolare online, rilanciati da decine di pagine e profili, dando origine a un’ondata di reazioni che ha travolto l’artista e, di riflesso, la sua etichetta.
Da quel momento, i fatti si sono susseguiti in modo rapido e complesso. Faneto, che fino a pochi giorni prima era uno dei volti emergenti più visibili dell’universo trap, ha disattivato i propri account social mentre la vicenda diventava oggetto di discussione pubblica. In contemporanea, sui canali dell’etichetta Trenches Records — la stessa fondata da Rondo Da Sosa e distribuita da Universal Music Italia — è comparso un comunicato ufficiale di dissociazione da ogni forma di violenza sulle donne.
Secondo quanto emerso, la casa discografica avrebbe inoltre deciso di destinare i proventi della musica di Faneto ad associazioni che si occupano di contrastare la violenza di genere, ribadendo che “nella cultura hip hop non c’è spazio per chi commette atti di questo tipo”.
Un messaggio che ha segnato una presa di posizione netta, almeno sul piano etico e comunicativo, a conferma di come la questione non riguardi solo un singolo artista, ma l’intero ecosistema culturale che lo circonda.
Nel frattempo, la vicenda si è arricchita di un altro episodio: un video, diffuso sui social, mostra Faneto mentre viene avvicinato e aggredito in zona 4 a Milano da un gruppo di ragazzi che lo avrebbero riconosciuto per strada. Tra loro, anche un artista conosciuto, che in seguito ha pubblicato una storia scusandosi per aver “agito d’impulso” e spiegando di non voler trasmettere “il messaggio sbagliato”.
Un gesto che ha suscitato ulteriori reazioni e che, se da un lato può essere letto come la risposta rabbiosa di chi condanna la violenza, dall’altro riapre il tema della giustizia privata e del rischio di trasformare la denuncia in una spirale di vendetta.
È importante precisare che, allo stato attuale, non esiste alcuna sentenza né conferma ufficiale riguardo alle accuse rivolte a Faneto. La situazione resta in corso di accertamento e ogni valutazione definitiva spetta alle autorità competenti. Tutto ciò che è emerso finora proviene da fonti social e da comunicazioni pubbliche, che fotografano più un clima che una verità giudiziaria.

La risposta di Trenches Records
In casi come questo, la gestione delle reazioni diventa parte integrante della notizia. Trenches Records, etichetta giovane ma influente, si è mossa con rapidità e prudenza.
La scelta di non diffondere i contenuti espliciti e di evitare di alimentare la dimensione “gossip”, invitando invece al rispetto e al silenzio, rappresenta una linea di comunicazione atipica per il panorama trap, spesso abituato a cavalcare la polemica.
Nelle loro parole, c’è un tentativo di ridefinire i confini tra immagine e responsabilità, tra l’arte e la persona. L’idea che la musica possa essere una forma di catarsi collettiva, ma non una giustificazione, risuona come un segnale di maturità in una scena che, negli ultimi anni, ha spesso confuso autenticità e autodistruzione.
Destinare i ricavi della musica di Faneto ad associazioni contro la violenza di genere è una decisione simbolica, ma anche politica: significa ammettere che il problema esiste, e che non basta cancellare un nome dai social per affrontarlo.
La reazione della scena: tra solidarietà e contraddizione
La comunità rap, da sempre compatta nel proteggere i propri membri, si è trovata di fronte a una frattura inedita. Molti artisti hanno scelto il silenzio, altri hanno preso le distanze. In generale, si percepisce un misto di smarrimento, rabbia e bisogno di chiarezza.
Da una parte, c’è chi chiede di non tacere di fronte a un tema come la violenza di genere; dall’altra, chi invita a non sostituirsi alla giustizia e a non trasformare il web in un tribunale.
L’aggressione subita da Faneto, a sua volta, è diventata un simbolo di questa contraddizione. Comprensibile come reazione emotiva, ma problematica come atto.
Quando la condanna di un presunto abuso si traduce in un altro gesto di violenza, la scena rischia di perdere il proprio equilibrio morale. La rabbia, anche quando nasce da un sentimento di giustizia, finisce per perpetuare lo stesso meccanismo che si vuole condannare.
In questo senso, la responsabilità collettiva diventa un tema centrale. Perché l’hip hop, più di qualsiasi altro genere, è comunità, linguaggio condiviso, specchio sociale. E come tale, deve interrogarsi su cosa significhi davvero essere “real” nel 2025: se seguire l’istinto o saperlo dominare.

Una riflessione oltre il caso Faneto
Al di là dei nomi e dei titoli, questa vicenda apre una discussione più ampia sulla relazione tra il rap e la violenza — non solo quella fisica, ma anche quella verbale e simbolica che attraversa testi, social e comportamenti.
Il rap è nato come voce di chi non aveva voce, come racconto di ferite e sopravvivenza. Ma quando diventa terreno per legittimare atteggiamenti distruttivi, tradisce la sua stessa essenza.
La cultura hip hop non è mai stata sinonimo di impunità. È sempre stata, piuttosto, una forma di resistenza, di introspezione, di verità.
Oggi, di fronte a episodi come questo, la scena italiana si trova davanti a una sfida necessaria: saper distinguere la rabbia che crea dalla rabbia che distrugge.
Perché la differenza tra chi racconta la strada e chi la usa come scusa sta tutta lì — nella responsabilità con cui si sceglie di usare la propria voce.
E forse, proprio da questa crisi, può nascere qualcosa di più maturo: un’idea di hip hop capace di denunciare la violenza senza replicarla, e di educare attraverso l’esempio, non solo attraverso le rime.




