“Non Serve Manifestare”? La Storia Dice il Contrario — e il Rap Lo Sa

Manifestare serve. La settimana scorsa le piazze italiane e europee si sono riempite ancora una volta per la Palestina. Roma, Milano, Londra, Berlino: migliaia di persone con cartelli, kefiah, cori e rabbia. Tutto dopo l’ennesima escalation a Gaza, l’intercettazione di una flotilla umanitaria e la sensazione, ormai insopportabile, di assistere a un film già visto.
E come sempre, dopo le piazze, sono arrivate le voci contrarie: “Non serve manifestare”. “Sono solo cortei che bloccano le strade”. “Oggi la politica si fa altrove”.
Ma davvero non serve manifestare?
Davvero la piazza è solo una valvola di sfogo?
O serve ancora — nonostante la disillusione, nonostante la saturazione di parole — come memoria viva di una forza collettiva che si rifiuta di sparire?
Questo pezzo non vuole essere un inno alla violenza, né un santino romantico della ribellione. Ma vuole ricordare una cosa semplice: senza protesta, il mondo che conosciamo sarebbe rimasto immobile.
E che anche nel rap — voce della strada, specchio del disagio — la protesta non è mai solo rumore: è linguaggio politico, è eredità, è strumento di sopravvivenza.

I momenti in cui manifestare ha cambiato davvero le cose
Ogni conquista nasce da un disturbo.
Quando le cose cambiano, quasi mai è perché chi ha potere decide di cambiare idea. Succede perché qualcuno, da qualche parte, ha detto “no” — e ha rifiutato di spostarsi da lì, anche a costo di pagare un prezzo.
Nel 1963, Martin Luther King riempì Washington con la forza della parola. Un anno dopo, il Civil Rights Act rese illegale la segregazione. Ma quel risultato non nacque solo dai discorsi: nacque dai sit-in repressi, dai pestaggi, dagli arresti, dalle marce interrotte a manganellate. Senza quella pressione, nessuna firma sarebbe arrivata.
Nel 1989, a Berlino Est, le proteste del lunedì scossero la DDR. I carri armati rimasero nei garage, ma le piazze traboccavano di corpi e coraggio. Il Muro cadde poco dopo: non per decreto, ma per collasso del consenso.
E non è finita lì. Ogni diritto che oggi consideriamo “normale” è stato conquistato disturbando la normalità.
Le donne, per votare, hanno dovuto farsi arrestare, digiunare, affrontare manganelli e ridicolo. Le suffragette inglesi hanno spaccato vetrine, sabotato cassette postali, fatto saltare in aria simboli del potere economico — non per distruggere, ma per farsi vedere da un sistema che le ignorava.
Le manifestazioni per il diritto al divorzio, in Italia come in Spagna, sfidavano la morale religiosa e l’ipocrisia politica: cortei, volantini, radio libere, slogan nelle strade. Il risultato? La legge sul divorzio (1970) e la conferma popolare nel referendum del ’74, un terremoto culturale che ha spaccato in due il Paese.
Le lotte per il diritto all’aborto — da Roe v. Wade negli Stati Uniti alle battaglie del femminismo europeo — non si sono vinte nei tribunali, ma nelle piazze: cortei, sit-in, scioperi, azioni dirette. L’Abortion Caravan canadese del 1970 arrivò a bloccare il Parlamento. E senza quella “guerriglia femminista”, i corpi delle donne sarebbero ancora proprietà dello Stato.
Il diritto di parola e di pensiero, dalle rivoluzioni liberali dell’Ottocento fino ai movimenti studenteschi del ’68, è stato difeso non con petizioni ma con occupazioni, giornali clandestini, volantini, cortei repressi. Ogni volta che la verità veniva messa a tacere, qualcuno trovava un modo per urlarla comunque.
E i diritti dei neri, in America e nel mondo, sono stati scritti nel fumo delle marce e nelle mani alzate di chi veniva picchiato per sedersi su un autobus o entrare in un ristorante. Da Selma a Ferguson, da Rosa Parks a Black Lives Matter, la storia del progresso civile è una storia di disturbo permanente.
La violenza non è un valore, ma il conflitto sì.
Il conflitto è il linguaggio che il potere capisce quando finge di non sentire.
E spesso, dietro la parola “disordine”, si nasconde la più antica delle verità: che il silenzio è comodo solo per chi comanda.
Ogni conquista nasce da un disturbo.
E se oggi possiamo parlare, scegliere, divorziare, votare, abortire, protestare, è perché qualcuno — ieri — ha deciso di non stare zitto. Non per distruggere. Ma per spostare il mondo, anche di un centimetro.

Il confine tra protesta e scontro
Protestare non è un gesto decorativo. È un atto politico.
A volte basta un cartello, a volte serve bloccare una strada. E sì, a volte le cose degenerano. Ma ridurre tutto a “scontri e disordini” è un modo comodo per non ascoltare.
La disobbedienza civile, quella di Thoreau, Gandhi, Rosa Parks, è una forma di scontro — ma simbolico, etico, non armato. È dire: “questa legge è ingiusta, e io non la rispetto”.
E quando il potere risponde con manganelli, lacrimogeni, processi o silenzio, il messaggio diventa ancora più forte: chi chiede giustizia non è mai neutrale, e chi reprime nemmeno.
Ma ci sono anche casi in cui la violenza — pur non voluta, pur condannata — è arrivata come reazione alla disperazione. Dalla Tunisia del 2010, dove la morte di Mohamed Bouazizi accese la miccia della rivoluzione, fino ai quartieri americani in fiamme dopo l’ennesimo omicidio razzista.
Nessuno di questi momenti va idealizzato. Ma neanche demonizzato. Perché sono sintomi di un dolore che non trova altri canali.
In fondo, ogni potere teme una cosa sola: la perdita del controllo sul linguaggio.
Quando il racconto ufficiale si incrina, quando la piazza diventa più credibile dei telegiornali, quando la voce di chi non ha voce comincia a vibrare dentro l’ordine costituito, allora qualcosa si muove davvero.

Il rap come manifestazione sonora
C’è un modo di protestare e di manifestare che non ha bisogno di permessi comunali: la musica.
Il rap, da sempre, è la forma più diretta di manifestazione. È piazza in 16 barre. È corteo in loop. È rabbia organizzata a ritmo di cassa.
Dal Fight the Power dei Public Enemy a Changes di 2Pac, dal rap francese delle banlieue fino alle voci italiane che hanno raccontato sfruttamento, carcere, Palestina, polizia, e marginalità — il rap è il megafono dei senza palco.
Non distrugge vetrine, ma rompe silenzi.
E quando la piazza tace, il microfono diventa la piazza.
Come diceva KRS-One, “il rap è la CNN della strada”.
Racconta quello che i media non vogliono dire. E quando un rapper prende posizione — che sia in un cypher, in un video o in un post — sta manifestando a modo suo.
Nel 2020, durante il Black Lives Matter, molte proteste si sono trasformate in freestyle, e viceversa.
Il rap non è solo colonna sonora della protesta: è protesta.

E oggi?
La settimana scorsa, chi è sceso in piazza per la Palestina, per manifestare, non ha cambiato il mondo. Ma ha ricordato che un mondo diverso si può ancora immaginare.
E questo, già da solo, è un atto politico.
Le manifestazioni non servono solo a ottenere subito qualcosa. Servono a tenere viva la tensione, a non permettere che il silenzio diventi normalità.
Chi dice che non servono, forse ha dimenticato che ogni diritto nasce da una disobbedienza.
E che ogni rivoluzione, anche quella che inizia in un post o in una strofa, nasce da qualcuno che si è stancato di stare fermo.
Forse manifestare non cambierà Gaza domani. Ma forse, in chi c’era in quella piazza, nascerà la prossima generazione di chi non accetta l’indifferenza come destino.
E se anche un solo ragazzo torna a casa e scrive una rima con quella rabbia dentro, allora la manifestazione non è finita: sta solo cambiando forma.




