Picciotto: “Nel rap il talento non basta, serve + culo”

Picciotto è tornato.
In un’epoca in cui visibilità e apparenza sembrano contare più della sostanza, Picciotto torna con un singolo che è tutto fuorché accomodante. “+ Culo” è una denuncia cruda e ironica, un pugno in faccia a un sistema che spesso premia la fortuna, l’algoritmo e il compromesso, lasciando ai margini chi ha davvero qualcosa da dire.
Attraverso satira, provocazione e immagini grottesche tipiche del rap di Picciotto, l’artista smaschera il “circo” della scena rap – e della società intera – con lucidità e sarcasmo.
In questa intervista, Picciotto ci racconta cosa si nasconde dietro il brano, tra esperienze personali, libertà d’espressione, pressioni del mercato e il coraggio di restare se stessi anche quando sarebbe più facile indossare una maschera. Perché, come dice lui, a volte il talento non basta… ci vuole + culo.
+ Culo è un pezzo molto diretto e provocatorio che denuncia un sistema dove spesso la fortuna conta più del talento. Quanto di questa esperienza personale c’è nel brano?
Tutto. “+ Culo” non è una fantasia, è autobiografia travestita da sarcasmo. Ho vissuto sulla mia pelle cosa significa sbatterti, creare musica con messaggi forti, e poi vedere altri andare avanti solo perché hanno avuto la spinta giusta o l’amicizia utile. Non sono uno che si piange addosso, ma uno che scrive ciò che vive. E vivere certe ingiustizie ti fa venire voglia di urlare, ma io le urlo in rima.
Picciotto, il singolo usa la satira per far riflettere su un mondo che premia l’apparenza e non il merito. Quanto pensi che questa dinamica sia diffusa nel rap italiano oggi?
È ovunque. Il rap italiano oggi ha un problema di sostanza: tanti contenuti che suonano bene ma non dicono niente. L’immagine è diventata più importante della penna. Io non voglio fare il nostalgico del “rap vero”, ma se il pubblico smette di pretendere verità e si accontenta dell’estetica, chi ha qualcosa da dire diventa invisibile.
Nel video di “+ Culo” trasformi la realtà in un circo grottesco: quanto è importante per te usare l’arte visiva per amplificare il messaggio delle tue canzoni?
Tantissimo. Oggi viviamo dentro lo schermo, quindi se vuoi che il messaggio resti impresso, devi farlo vedere oltre che sentire. Il circo è l’immagine perfetta della nostra società: caotica, illogica, ridicola. Eppure c’è sempre un pubblico che applaude. Con Ronf Animation abbiamo trasformato quel concetto in un cartoon satirico dove siamo noi stessi – artisti, clown, giocolieri – in scena, consapevoli di tutto, eppure dentro il sistema.

Parlando di libertà di parola, come vivi oggi la possibilità di esprimerti liberamente nel rap? Hai mai dovuto autocensurarti?
La libertà ce l’ho dentro, non nei regolamenti. Però sì, mi è capitato di frenarmi, non per paura, ma per responsabilità. Oggi basta una frase per essere frainteso, travisato, strumentalizzato. Io non voglio fare la guerra alle etichette, ma credo che un artista debba potersi esprimere, anche sbagliando, senza che gli venga tappata la bocca. Il rap nasce così, crudo, diretto. Io ci credo ancora.
La sentenza Fibra-Scanu ha riacceso il dibattito sulla diffamazione nel rap. Credi che questo possa limitare la creatività e la critica sociale degli artisti? Hai mai avuto paura di uscire con un pezzo tuo?
La paura no, il timore del fraintendimento sì. Se inizi a mettere paletti alla satira, alla provocazione, al dissenso… allora il rap non è più rap, è marketing. Il caso Fibra-Scanu dimostra che oggi tutto è sotto giudizio, anche quello che è evidentemente espressione artistica. Io continuo a dire ciò che penso, anche se so che ogni parola può diventare una miccia. Ma va bene così. Chi scrive con coscienza, non ha paura del confronto.
Nel brano parli di un sistema “truccato” che premia il caso e l’opportunismo. Nel rap game, quanto è difficile mantenere la propria autenticità e integrità?
È difficilissimo. Quando sai che potresti piacere di più cambiando tono, immagine o messaggio, la tentazione c’è. Ma io ho scelto un’altra strada: quella dove magari arrivi più lentamente, ma arrivi intero. Non sono un personaggio, sono una persona. Chi mi segue lo sa, e mi ascolta per questo.

Quanto credi sia importante oggi, per un artista emergente, avere una voce critica e scomoda come la tua?
Guarda, ti dico la verità: non mi sento un artista emergente. È una definizione che mi sta antipatica da anni. Ho scritto, suonato, lottato e portato il mio messaggio ovunque, con coerenza e impegno. Credo che la definizione che mi rappresenta di più oggi sia quella di “artista esperiente” – uno che ha dato tanto alla scena rap nazionale, che ha ottenuto rispetto, riconoscenza e anche un certo tipo di successo.
Detto questo, credo che avere una voce scomoda sia importante a prescindere dall’età o dal momento della carriera. Se vuoi solo intrattenere, ci sta. Ma se vuoi lasciare un segno, devi anche avere il coraggio di dire cose che non tutti vogliono sentire. Io sono soddisfatto del mio percorso proprio perché non ho mai avuto paura di essere scomodo. E questo, alla lunga, paga. In credibilità, se non altro.
Nonostante tutte le difficoltà che racconti in “+ Culo”, cosa ti dà la forza e la motivazione per continuare a fare rap?
La gente vera. Quelli che mi scrivono dopo un brano e mi dicono “era proprio quello che pensavo”. Quelli che ridono, riflettono, si sentono meno soli. E poi c’è anche una parte più personale: il rap mi ha salvato tante volte. È la mia terapia, la mia arma, il mio specchio. E ogni volta che salgo su un palco, o premo “send” su una nuova traccia, so che ne vale ancora la pena.