Rap italianoTop Content

Shablo pubblica Manifesto: il disco che racconta le radici dell’Hip Hop

Shablo esce oggi con Manifesto, e lo fa come non l’avevamo mai visto prima: non più soltanto dietro le macchine, a costruire visioni sonore per altri, ma in prima persona, come guida e voce di un viaggio musicale che affonda nelle sue radici culturali e musicali. Un disco che porta il suo nome e, per la prima volta, anche il suo sguardo, la sua parola.

Chi conosce davvero la scena hip hop italiana sa che Shablo è molto più di un produttore. È una figura di connessione, un costruttore di ponti tra generazioni, generi e sensibilità. Dall’Argentina all’Italia, dalle produzioni per Marracash, Guè, Sfera o Rkomi fino al lavoro dietro le etichette indipendenti che hanno formato la nuova ondata urban, ha sempre portato con sé un’idea precisa di suono e di identità. Manifesto è la sintesi di tutto questo: un disco stratificato, denso di riferimenti alla musica black – jazz, soul, funk – ma anche attraversato da una poetica urbana che ha il sapore della realtà.

Le atmosfere del disco sono calde, suonate, analogiche. I brani non si limitano a un’estetica vintage: sono vissuti, carichi di groove, ma anche capaci di parlare al presente. Shablo in questo lavoro scava in profondità, non per nostalgia, ma per riattivare quel legame autentico tra la musica e l’anima, tra le radici e il futuro. E lo fa chiamando attorno a sé una costellazione di voci affini, come Joshua, Tormento e Mimì, che con lui condividono un’idea di musica fatta di corpo, pensiero e spiritualità.

Cuore, groove, identità: perché questo disco ha senso (anche) per chi ama il rap

Parlare di Manifesto dentro un magazine dedicato alla cultura hip hop non solo ha senso, ma è quasi necessario. Perché anche se a prima vista questo disco sembra allontanarsi dalle rotte classiche della scena, in realtà ne incarna il cuore più profondo.

L’hip hop nasce dalla strada ma anche dalla cultura, dalla voglia di raccontare, di dare voce. E Shablo fa proprio questo: con Manifesto, si prende il tempo e lo spazio per un racconto intimo e insieme collettivo.

C’è dentro il suono delle radici afroamericane, il richiamo al jazz e al soul come forme musicali che prima di tutto erano modi di resistenza, spiritualità e identità. C’è il groove che ha nutrito il rap dalle sue origini. C’è la visione di chi ha sempre saputo che hip hop non significa solo beat e barre, ma soprattutto ascolto, memoria, trasformazione.

Manifesto è un disco che parla agli amanti della cultura black e a chi ha sempre pensato che una rullata di batteria o un riff di Rhodes potessero raccontare più di cento versi. Ma parla anche a chi ha vissuto il rap italiano dagli anni Zero, quando la scena underground iniziava a sognare in grande, e Shablo era già lì a darle struttura.

Il suo non è un disco rap nel senso più convenzionale, ma è un disco hip hop in senso totale. È cultura urbana portata ad un livello di maturità e riflessione. È blackness, ma senza cliché. È radici, ma senza passatismo. È presente, e per questo ci riguarda.

Shablo e il “problema” di Sanremo

Quando Shablo ha portato La mia parola sul palco di Sanremo, in molti si sono chiesti: cosa ci fa un brano così dichiaratamente urbano, con un groove così soul, dentro una delle istituzioni musicali più tradizionali del paese? La risposta, però, sta proprio nel titolo: La mia parola. È stata la sua voce, la sua verità. Non un adattamento per piacere, ma un atto di coerenza.

Il brano non ha cercato compromessi: è rimasto fedele al mondo da cui proviene, con un basso caldo, una melodia blueseggiante, e il contributo di Joshua e Tormento che hanno rafforzato l’identità soul-rap della traccia. È stata una scelta rischiosa, certo. Ma anche necessaria, se si vuole che la cultura urban italiana venga rappresentata nella sua complessità anche nei contesti più istituzionali.

Non è la prima volta che il rap sale su quel palco. Ma ogni volta che un artista della scena prova a contaminare Sanremo, il rischio è quello di essere frainteso.

Shablo, invece, è riuscito a portare lì la sua visione senza piegarla. Ha parlato con la lingua delle sue radici, e lo ha fatto su uno dei palchi più visti d’Italia. È un atto politico, prima ancora che artistico. E merita di essere raccontato.

Tre anticipazioni, tre direzioni, una sola anima

A preparare il terreno per Manifesto, Shablo ha pubblicato tre brani che sono già piccoli capitoli di questa narrazione. Tre pezzi che, pur molto diversi tra loro, raccontano le sfumature di un disco che vive di contaminazioni. La mia parola – brano sanremese citato poco fa, è una preghiera urbana, una dichiarazione di indipendenza con forti accenti gospel e soul.

Le immagini nel testo sono viscerali, fatte di città, nebbia, benzina e desiderio di verità. Il beat resta minimale, ma la profondità emotiva è massima. Gelido – live session – è la traccia che più esplicitamente mostra l’amore di Shablo per la musica black.

Il video live insieme a Joshua, Tormento e Mimì è un momento sospeso: groove autentico, interplay tra voce e strumenti, un’atmosfera da club notturno in cui la parola si fa strumento e il suono diventa pelle. È una dichiarazione d’intenti estetica, prima ancora che musicale. Spirito Libero – è l’omaggio più diretto alle origini. Campionando Non sono un angelo, versione italiana di I’m Wondering di Stevie Wonder, Shablo costruisce un pezzo che è riflessione, ma anche leggerezza. Joshua canta “la mia libertà comincia da me”, e tutto il pezzo gira attorno a questa dichiarazione. È soul moderno, con lo sguardo dritto al futuro.

Manifesto di Shablo è una questione di verità

Il disco di Shablo è un atto di responsabilità musicale. È come se Shablo, dopo anni passati a costruire paesaggi sonori per gli altri, avesse sentito il bisogno di mettersi al centro, non per egocentrismo ma per coerenza. Per dire la sua, con la sua voce, e con i suoni che lo hanno cresciuto: il jazz ascoltato da bambino, il soul ereditato dalle strade, il funk respirato nelle produzioni che non hanno mai smesso di cercare l’anima.

In un panorama in cui la musica urban rischia spesso di diventare formula, Shablo sceglie invece la forma più difficile: quella dell’identità. Non rincorre le mode, non fa il verso a nulla. Semplicemente, racconta sé stesso attraverso un linguaggio che ha radici profonde, ma che sa ancora parlare al presente.

Questo disco è una dichiarazione, ma anche una domanda: può l’hip hop essere ancora un luogo di verità, di groove, di libertà? Shablo risponde sì. Lo fa con dolcezza, rigore e amore. E forse è proprio questo che rende Manifesto un progetto necessario: ci ricorda da dove veniamo, e ci invita a scegliere dove vogliamo andare.


Selene Luna Grandi

Italian journalist, creative and public relator. I moved to London in 2015 after several years of experience as war correspondent for some Italian Newspapers. I write, promote and I'm involved in projects about Medicine, Health, Urban cultures, Environment.

Articoli Correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


Il periodo di verifica reCAPTCHA è scaduto. Ricaricare la pagina.

Pulsante per tornare all'inizio