Interviste

È tempo di Payback! – Intervista a Rak

Matteo Falcolini, classe 1987, in arte Rak.

Crea insieme a Marciano la crew Barracruda nel 2010, nella formazione è presente anche il fratello di Rak, Arne Beats, il produttore del gruppo. Da allora susseguirono tre Mixtape e vari dischi da solista dello stesso Rak. 

Dopo qualche anno di pausa,Rak ritorna con Payback, il nuovo disco in collaborazione con Kamyar, giovanissimo produttore noto già da qualche anno all’interno della scena per aver collaborato con molti artisti rinomati.

Come sempre Rak resta fedele all’idea di rappresentare, in questo caso, oltre se stesso anche tutto ciò che lo circonda dagli albori della sua musica: la sua gente, i suoi seguaci e compresa Roma, la sua città natale, dove tutto ebbe inizio.

Dopo anni passati a vivere, a viaggiare, a formarsi come uomo e come artista, ritorna per il Payback, è il momento di raccolta dopo lunghi anni di semina.

Abbiamo fatto una bellissima chiacchierata al telefono, leggete un po’ cosa ci siamo detti.

Rak – Payback

Ciao Matteo, ti ringrazio sono molto felice di farti questa intervista. Ti volevo chiedere innanzitutto come stai? Come sta andando?

Rak: Sto bene, sto bene! Grazie a voi per lo spazio. Payback è uscito il 23 Febbraio, quindi son passate già due settimane.

Diciamo che ci sono già i primi risultati, no? Perché il disco sta facendo degli ottimi numeri sul digitale, sta avendo dei feedback super positivi, principalmente dalla gente, che è la cosa che mi interessa di più, ma anche da parte dei colleghi, addetti ai lavori, etc. 

Dopo poco più di cinque anni che non pubblicavo sono partito con delle aspettative, non voglio dire basse però, molto tranquille. Avevo il piacere di fare un disco nuovo e di farlo al meglio, quindi vedere che è arrivato, è una bomba!

Inoltre, sono successe delle cose inattese: Spotify ci ha inserito in quattro liste editoriali, siamo sulla copertina di Radici Hip Hop. Stiamo lavorando bene, le cose vanno super bene e siamo tutti abbastanza carichi. 

Partiamo subito a parlare di Payback. E’ un titolo molto interessante, letteralmente può avere vari significati come, per esempio, rimborso. In realtà in questo caso il vero significato è quello di restituire un qualcosa; è tempo di raccolta dopo anni di semina. E’ un disco che parla di riconoscimenti verso te stesso, per tutto quello che hai fatto durante la tua carriera, riconoscimento per le persone che ti hanno seguito per tutti questi anni; è arrivato il momento di riprenderti quello che ti spetta e i tuoi riconoscimenti all’interno della scena…ma payback potrebbe significare anche vendetta. 

E’ solamente un caso o sotto sotto vorresti un po’ toglierti qualche sassolino dalla scarpa?

Rak: E’ una domanda interessante, perché quando iniziai a pensare a questo titolo ne parlai con mio fratello, Arne Beats, che è stato molto presente, soprattutto sulla parte del Concept del disco. 

Mi sono confrontato tanto con lui e ci siamo scambiati un sacco di idee. Anche lui mi ha detto che questa parola avrebbe potuto avere l’interpretazione della vendetta, come get back, avevamo considerato varie possibilità.

La prima cosa che ho pensato è stata, da un punto di vista prettamente artistico, che il tema del riconoscimento sia per me anche un tema generazionale, no?

La nostra generazione, secondo il mio parere, merita qualcosa di più per quanto riguarda l’impegno che ha messo in alcuni anni dove determinate cose andavano in un certo modo. Credo che noi abbiamo ricevuto anche dei meriti in quella fase lì.

Sì sì, sono d’accordo.

Rak: Al di là delle opinioni, penso che a me mancasse un progetto che fosse in grado di posizionare il mio nome, la mia musica, anche un po’ la mia generazione e Roma, principalmente, sulla mappa dell’era moderna di questo genere musicale. D’altro canto, ovviamente, non è mai solo una questione prettamente di Hip Hop, di musica, c’è tantissimo di personale. Dietro questo disco c’è anche un lungo lavoro che ho fatto su me stesso, un periodo anche di maturazione, di crescita. 

Infine, la mia risposta alla domanda è no! 

Non con un senso di vendetta rispetto a cose negative che possono essermi accadute ma, anzi, con un senso di accettazione, perché sono tutte cose che mi hanno sicuramente portato dove sono adesso, sia a livello personale che a livello artistico. Il Payback è la raccolta dopo tanti anni di semina, sia dal punto di vista psicologico, dal punto di vista lavorativo, umano, è quello che auguro a tutta la mia gente e a tutti quelli che mi seguono. Tutta la generazione che oggi inizia ad avere 35-36-37 anni merita una voce; questo genere può essere qualcosa anche per le persone adulte, questo è il punto.

Sono io che mi intrippo male sui titoli dei dischi, cerco di trovarci mille significati nascosti…

Rak: Qualche sassolino c’è sicuramente… non c’è dubbio, ma il Concept è più un messaggio positivo piuttosto che di rivendicazione; ne abbiamo fatte abbastanza negli anni addietro di rivendicazione adesso è una nuova stagione. 

Ok ok, quindi c’è anche una sorta di voglia di sottolineare la tua emancipazione. 

Quand’è che hai capito realmente di esserti emancipato personalmente, perché il disco è molto personale e introspettivo, anche artisticamente?

Rak: Quello dell’emancipazione è un ottimo punto. 

Guarda, io non sono né un santone né un filosofo, sono rapper. 

Tutti quanti nella vita, prima o poi, si confrontano con se stessi, prima di arrivare al passaggio alla fase adulta. Io questo confronto l’ho avuto durante un brutto periodo che ho vissuto, credo sia un dettaglio importante da citare, che è stato a cavallo tra il 2015 e il 2016, pensa che c’è stato pure un altro disco di mezzo. In quegli anni, attraverso il lavoro di crescita professionale, grazie alle persone che ho avuto accanto e grazie anche alla terapia, sicuramente sono cresciuto tanto, mi sono centrato molto, ho capito in che posizione doveva stare la musica e dove doveva stare il lavoro. 

Credo che questo disco sia anche il frutto di questo percorso che ho fatto come persona, come uomo. 

Tra l’altro mi piace un sacco sto disco, complimenti, a prescindere da tutto. 

Solitamente dopo aver ascoltato un disco nuovo penso “che palle, un altro disco di merda”…

Rak: Grazie, sono contento che il concept stia passando, perché tanta gente mi ha detto che questo disco, per il nome, Payback, la copertina, il singolo uscito etc. avrebbe potuto dare un’impressione sbagliata.

Milkshake, l’abbiamo fatto uscire per primo anche per disorientare, triggerare un po’.

Noi volevamo fare una partenza molto muscolare, far vedere che ancora quando si tratta di fare questa roba non temiamo paragoni, quindi una grande consapevolezza dei nostri mezzi.

Dall’altro lato, però, la copertina del vinile, è un lavoro pazzesco che abbiamo fatto con una fotografa super brava che si chiama Ornella Mercier, che ringrazio, ha un significato: il cane al guinzaglio rappresenta un po’ la parte che ognuno di noi ha, la più aggressiva. Come puoi vedere nella copertina il cane è molto tranquillo e lo tengo accanto a me, perché in qualche modo penso di aver dominato quel mio lato e di conseguenza ritorno per il pay back con una certa consapevolezza. Nella copertina del vinile do le spalle alla camera, perché osservo quello che ho davanti che, metaforicamente, è la situazione attuale della musica in Italia, della mia città e cerco di raccontarlo nel disco. 

Si nota che non è del tutto un disco autocelebrativo, ho percepito una certa poetica dietro alla tua volontà di urlare al mondo che ti sei semplicemente preso una pausa, ma non te ne sei mai andato!

 Rak: Esatto, non volevo creare un disco autocelebrativo. 

L’idea era quella di ritornare con un’estetica rinnovata con un lavoro di grafica e fotografia. Rimanendo Real, ma aprendosi a un lavoro di estetica che desse l’idea di un’evoluzione, una maturazione che coinvolgesse anche un pubblico adulto.

All’interno del disco c’è una traccia prodotta dal grande Squarta in collaborazione con Gabbo, però l’intero album è prodotto da Kamyar. Sembrerebbe un joint album. Come è nata questa collaborazione? 

Rak: Io e Kamyar abbiamo già collaborato in passato in un pezzo del mio precedente disco Born to be ready che si chiama Flashback, un featuring con Basilare, un artista di Roma, che è un mio fratello e ci siamo trovati molto bene.

Anni dopo, mi contatta Kamyar e mi dice: “senti io sto so producendo, mi piacerebbe vederti per farti sentire qualcosa e vedere se riusciamo a creare qualche pezzo insieme”. Io in quel periodo stavo ragionando sui primi pezzi nuovi, sarà stato il 2020, più o meno, in uscita dal Covid. Allora gli risposi che magari, senza impegno ci avrei pensato, perché non ero ancora sicuro di lavorare a un progetto nuovo. 

Lui, al contrario, era molto motivato, quindi, da una roba che doveva essere “divertiamoci e vediamo che salta fuori” sono venuti fuori i primi pezzi. 

Kamyar proveniva un po’ da un altro mondo; lui ha prodotto precedentemente Dark Polo gang… per me era una bomba, perché la sua idea, che poi si è rivelata anche la mia, era quella di fare un disco nuovo Rak, ma non per rifare quello che avevo già fatto. Cercare di trovare una sintesi: lui con il mio stile, quindi adattarsi un po’, e io a mia volta trovare un vestito sonoro che fosse in linea con il 2024. 

Volevi dare una rinfrescata, in poche parole…

Rak: Beh, fresco certo, a passo coi tempi.

Alla fine è stato un bellissimo percorso che abbiamo fatto che è diventato sempre più serio e ci siamo confrontati con tante persone che ci hanno dato una mano.

Per me è stata un’esperienza fighissima, perché Kamyar è il Produttore, colui che veramente riesce ad entrare dentro ai brani; ha una visione professionale anche su quello che le canzoni potrebbero diventare. 

E’ un talento, da questo punto di vista, mi auguro che collabori anche con tanti altri artisti italiani anche a livelli altissimi. Secondo me se lo merita, ha veramente qualcosa di speciale e lo ringrazio davvero. 

L’ho notato anch’io, infatti le produzioni mi piacciono un sacco. Ti seguo da parecchio tempo, ascoltavo i Barracruda, poi qualche tuo progetto da solista, ma questa unione l’ho apprezzata in particolar modo, ti dico la verità.

Rak: Grazie, riferirò!

Milkshake è il singolo che ha anticipato l’uscita del disco con tanto di video musicale. 

Nell’intro del video avete ricreato la scena di un fan che ti riconosce all’interno di un negozio di dischi e ti chiede di poter fare una foto, da quello che si può notare sembrerebbe che tu non sia abituato alla gente che ti riconosce per strada e ti chiede le classiche foto trofeo da fan; per concludere l’intro, l’amico del fan distrugge l’atmosfera esclamando “ma chi è Rak!”. 

La cosa di non essere riconosciuto è un’abitudine o volevi semplicemente scherzarci su perché non dai molta importanza a queste cose?

Rak: Bella domanda! No, la verità è che in giro per Roma mi conoscono tutti.

Mi fermano molto spesso, perché voglio un bene immenso alla mia città e devo dire che questa cosa è sempre stata ricambiata. 

Ovviamente non sono Totti, mi fermano i ragazzi che seguono l’Hip Hop e il rap. L’idea del trailer era un po’ questa: da un lato i cambiamenti di vita, il lavoro, etc., non cambiano chi sei veramente, sei sempre la stessa persona. Era figo immaginare una contrapposizione tra un fan di vecchia data, che ancora oggi ti chiede la foto anche se non esci da tanti anni, e un ragazzo di nuova generazione che non sa chi sei semplicemente perché cinque anni sono un’era geologica. 

E’ normalissimo che un pubblico nuovo, che segue le “cose” nuove, con la velocità della musica di oggi, possa ignorare la mia presenza. E’ stato un modo per calcare l’idea del ritorno, scherzando un po’ sulla mia assenza. 

La giacca e cravatta è il tuo reale outfit da lavoro?

Rak: Io mi occupo di diritto d’autore, ho la fortuna di fare un po’ come mi pare; ho fatto Giurisprudenza, sono diventato avvocato. L’idea della giacca e cravatta era per richiamare un po’ la mia storia professionale. Sono diventato un avvocato molto atipico, che non va in tribunale ma fa un altro tipo di lavoro di consulenza, però mi occupo di musica, mi occupo di cinema. La giacca e la cravatta, quindi, per creare la contrapposizione tra le due anime che convivono dentro di me. 

In questi anni sono diventato Matteo Rak Falcolini, ho messo insieme i pezzi. D’altronde è un bell’esempio anche per i pischelli, tutti i miei fan sanno che ho studiato…

Ragazzi, potete fare rap anche se siete laureati!

Rak: C’è un rapporto molto diretto con i miei fan e credo che la consistenza del mio percorso sia dipeso anche da questo: non inventarsi mai niente e di cercare di essere lucidi, coerenti e ovviamente c’è una riservatezza in alcune cose per motivi professionali che non riguardano la musica.

Non ti voglio fare le classiche domande su Roma, su come è cambiata la scena “rappusa” e cosa ne pensi a riguardo, piuttosto sono molto affascinata dal modo in cui voi rapper romani siate così legati alla vostra città d’origine. E’ un legame viscerale, in Svegliarsi a Roma (feat. Danno, Gianni Bismark, Icaro), per esempio, Gianni Bismark nella sua barra dice “A Roma, se ce nasci, poi ce mori”. E’ come se Roma fosse una lupa che allatta tutti i suoi figli e non li lascia andar via, spiegami dal tuo punto di vista perché questa città crea così tanti, passami il termine, “mammoni”?

Rak: Ci sta! Da un certo punto di vista credo che il tema sia un po’ come dissero pure i Colle Der Fomentola città di chi se ne va ma che tanto poi ritorna. Ho scritto pure un pezzo sul tema dell’andarsene via, che è Vattene feat. Masito. E’ un pezzo che avevo dedicato a mio fratello quando è andato via dall’Italia, poi infatti mio fratello è ritornato a Roma.

Penso che Roma sia una città incredibilmente bella e incredibilmente problematica. Un po’ come nelle migliori storie d’amore, nei migliori legami, ogni romano convive con questo sentimento di amore/odio nei confronti di questa città. 

Roma è una città che, secondo me, è capace di accogliere chi viene da fuori, al contrario di quello che si dice o si pensa. 

Roma è una città dove convivono una serie di componenti, primo fra tutti, secondo me, l’atteggiamento “scanzonatamente provocatorio” che tutti noi romani abbiamo: la presa per il culo spontanea; la confidenza che molto spesso ci prendiamo nei confronti dei visitatori che, spesso e volentieri, mette a disagio.

Nonostante ciò, Roma, alla fine diventa un posto dove anche chi è nato da un’altra parte, ma ci vive per un periodo, finisce per legarsi tantissimo. Non saprei spiegarlo in altri termini.

Dà un senso di familiarità questa città. Ho percepito la stessa cosa quando misi piede a Roma per la prima volta, da siciliana, mi sono sentita a casa. 

Rak: E poi, ti dico pure, che è un peccato, perché da un certo punto di vista è una città pure piena di problemi: amministrativi, logistici, non c’è la metro. 

Nonostante questo, vi sono alcuni quartieri più periferici, dove ancora si vive una dimensione differente, dove esiste ancora un rapporto di “confidenzialità” tra tutte le persone che ci abitano. 

Sotto un particolare punto di vista, Roma, è l’unica grande metropoli italiana, che grazie alla struttura dei suoi quartieri sa anche essere anche un pochino provinciale.

Ogni persona che abita a Roma, nel suo contesto, riesce a crearsi una familiarità che secondo me è quella che ti serve per stare bene con te stesso. Certo che si può andare via, tantissimi miei amici vivono da altre parti, però provi costantemente quel senso di mancanza di te stesso che ritrovi soltanto una volta che ritorni a casa. 

Quindi non credo, per risponderti, il legame con Roma è veramente una questione di cuore. 

Se tu pensi anche ai grandi calciatori, grandi attori, tutte quelle figure che hanno fatto parte di questa città, tipo Alberto Sordi, Gigi Proietti, Verdone stesso, portano con sé questo tema dell’attaccamento forte nei confronti di Roma. 

Sono soprattutto le persone che poi alla fine fanno i luoghi, nel bene o nel male; hanno tanti problemi, alle volte sono un po’ incazzate e quando giri per la città magari tendono a discuterne un po’ troppo, ma questo è un rapporto viscerale e di cuore che io personalmente sono orgoglioso di avere. 

Ogni volta che faccio un disco penso sempre che voglio ritornare qualcosa indietro a questa città per tutto l’affetto che mi ha dato in tutti questi anni . 

Spero che il 30 Marzo al Monk sia un’altra occasione per fare questo, perlomeno è quello che ci auguriamo.

So che questa domanda te l’hanno fatta in molti, ovvero: che cosa hai fatto negli ultimi 5 anni? 

Però non volevo chiederti esattamente questo, volevo spezzare una lancia a tuo favore per parlare di questo mostro comune a tutti gli artisti che è il Tempo! 

Ormai gli artisti partoriscono dischi ogni 6 mesi e il più delle volte si notano certe “crepe”. Magari è proprio una scelta dell’artista e c’è chi riesce a sviluppare dei progetti interessanti: i dischi sono fatti bene, con una buona produzione ecc. In altri casi si nota una certa superficialità nei contenuti a causa delle scadenze da rispettare. 

Io, personalmente, ho bisogno di mesi per ascoltare bene un disco, alcune volte un anno intero e alcuni artisti li ho proprio snobbati per questo motivo. Tu cosa ne pensi a riguardo? 

Rak: E’ un tema presente anche in America. Il tema di cercare di essere prolifici, se posso partire da una nota un po’ autocritica, per me è un pregio. 

Un artista che riesce comunque a droppare un disco ogni anno, magari mantenendo un livello di qualità alto in quello che fa, (in Italia un esempio valido potrebbe essere Guè, ma questa è una mia personale opinione) credo che sia un grande merito. 

D’altro canto è pure vero che non tutti fanno solo musica nella vita, quindi i tempi di produzione di chi, per scelta o per necessità, ha deciso che vuole avere una doppia attività e fare anche un altro lavoro, sono necessariamente differenti. E’ una questione anche proprio di possibilità oggettive di tempo, come dicevi tu, a disposizione.

Ti dico pure che per fare un certo tipo di disco non è che c’è un tempo predefinito. Io dico sempre che ci sono dei periodi in cui si vive e basta. Ci sono dei momenti in cui magari avresti tante cose da dire ma ti trovi nel periodo di non produttività per poter rispondere alle aspettative esterne. Per quanto mi riguarda ho rovesciato completamente questo rapporto. 

Ragionavo così ai tempi di Barracruda; eravamo super prolifici, abbiamo droppato tre mixtape, due dischi solisti nell’arco di tre anni, quindi vuol dire che abbiamo fatto oltre 100 brani in tre anni in quel periodo. 

Magari c’entra anche l’età, in quel periodo eravate giovanissimi.

Rak: Esatto! C’entra l’età, secondo me arriva anche quel momento in cui puoi  lasciare riposare tutto quello che ti sta succedendo, inizi ad avere delle idee in testa che però non hanno preso del tutto forma.

Diciamo che la fortuna è pure quella di poter fare un po’ come ci pare, perché ovviamente se sei sotto contratto è diverso, io ho la possibilità di scegliere. 

Inoltre, secondo me, a volte il risultato anche di una di una lunga attesa risulta positiva, non è una formula scontata può essere pure che tu ci metta cinque anni per fare un disco e poi non va per come te lo aspettavi. La cosa importante è la soddisfazione tua, cioè, il tema vero per risponderti in modo molto chiaro, è che la migliore musica, il miglior quadro, il miglior film, deriva sempre dalla relazione tra le tue azioni e ciò che ti emoziona. 

Se tu riesci a fare un disco, come è stato per me in questo caso, che ti soddisfi al 100% , che ti emozioni fare perché pensi che ti rappresenti e contenga tanto di te (nel mio caso ci sono voluti cinque anni, ma devo dire pure che ho iniziato a lavorarci nel 2020/21) alla fine alla gente arriva. Quando invece ti lasci influenzare troppo dalle aspettative esterne è molto più facile che le cose non vadano bene. 

Noi abbiamo atteso tanti anni dei dischi incredibili nella storia della musica, a volte siamo rimasti contenti, altre volte no. 

Quello che sicuramente ha fatto la differenza è che i dischi che ci hanno veramente emozionato sono anche quelli che rappresentavano al 100% chi li aveva scritti, per poi rimanere nella storia.

Per esempio 50 Cent ha fatto il The Final Lap Tour quest’anno, che prevedeva oltre 100 date, credo.

In questo tour ha presentato il ventennale di Get Rich or Die Tryin’, chiaramente i risultati sono stati incredibili perché è stato a tutti gli effetti un evento irripetibile. Ovviamente stiamo parlando di un artista di fama mondiale, di un altro livello. 

Secondo me il tempo è funzionale per creare alcuni capolavori, vivere delle esperienze con il fine di trasmetterle e raccontarle nel migliore dei modi. 

In questo album hai riunito un bel po’ di gente, qual è la canzone del disco alla quale sei più legato?

Rak: Ovviamente, un po’ come i dischi, anche i brani di un album sono un po’ figli tuoi. 

Non è semplicissimo rispondere a questa domanda… per non fare torto a nessuno dei miei 13 figli di questo album sicuramente l’outro, Sky, è un pezzo molto importante per me, perché a mio parere è la chiusura del cerchio perfetta per concludere l’album. È un pezzo che ho finito di scrivere a New York, l’ultimo che ho scritto e l’ultimo che ho registrato; al suo interno c’è anche una dedica ai miei nipoti Luca e Valeria e mi rivolgo a mio fratello Arne affrontando un discorso importante. Inoltre il finale è dedicato a tanti  amici che non ci sono più, quindi credo che Sky sia il pezzo che dal punto di vista personale ed emozionale è il più importante. 

Si ritorna sempre a fare ciò che ci fa stare bene, vita permettendo, vorrei citare una frase del pezzo Ghettoblaster di STOKKA E MADBUDDY: “Dimmi se è una moda, oppure credi in questa cosa”.

Come si riconosce la gente che lo fa per moda o per passione secondo te?

Rak: Ne approfitto per salutarli!!!

Penso che questo sia un tema di attualità. 

Questa roba è cambiata talmente tanto che in realtà, per quanto mi riguarda, non è cambiato proprio un cazzo! 

Oggi esistono cose totalmente diverse fra loro. Un artista oramai, se lo fa a livello professionale, deve dedicarsi a delle attività esterne alla musica. Capisco anche perché tutto ciò è necessario: faccio parte dello stesso mondo e sono anch’io un consumista. Quello che penso, però, è che tutto questo discorso aveva senso nel periodo in cui Ghettoblaster è stata scritta, perché effettivamente non c’era un business come quello di oggi. 

Non so nemmeno se qualcuno lo faccia per moda, quello che so è che il rap è diventato fico, è diventato di tendenza e secondo me (per stupirti, magari non te lo aspetti), penso anche che sia diventato un bene per tutti. 

Non ho più quel sentimento che avevo nei primi anni 2000 quando i coatti avevano iniziato a mettersi il cappello girato al contrario, cazzo, questa era una roba per la quale ci prendevano per il culo. 

Che cazzo è successo? 

Quei rapper da Tik Tok, che non hanno mai fatto un live, non cambiano la qualità della nostra roba, la continueremo a fare nel modo migliore possibile come succedeva 15 anni fa. 

Tutto quel teatrino che sta in altri posti porta lavoro a tante persone, la gente porta il pane a casa perché sta in quel business, quindi mi viene da dirti che alla fine è un bene per tutti. 

Ai tempi la gente se la prendeva con Eminem, in America dicevano “Eh, vedi il ragazzo bianco che ha fatto diventare Pop questa roba”. La verità è che senza Eminem, l’ha detto 50 Cent in alcune intervista, niente Lamborghini, niente Maserati, niente soldi. 

Sicuramente io so riconoscere perfettamente chi è animato dalla passione per questa roba, però ti dico pure la verità, sono un po’ stanco di quell’atteggiamento forzatamente underground. Tantissimi artisti con questa mentalità vorrebbero sedersi al loro posto, è pure arrivato il tempo di darci tutti quanti una svegliata. Ringraziamo la ruota che gira.

Oggi Egreen fa un decennale di un disco uscito 10 anni fa, non lo fa solo grazie a quello, però riempie i locali il mercoledì. 

Fa tutto parte dello stesso meccanismo, alla fine la gente  finirà  per comprarsi il disco di Kaos, quindi una ciclicità. 

Lasciamo che la ruota giri, ognuno fa le sue cose e se dobbiamo dissarci, prenderci per il culo e giocare al gioco del rap siamo tutti qua per questo, quindi che problema c’è? 

Questa è una bellissima risposta, però è tutto in base a chi ascolta, secondo me. 

Io c’ho 32 anni e quando ho iniziato ad ascoltare il rap avevo l’imprinting di un tipo di rap che ai tempi “era fatto bene” e non parlo solo di underground. Oggi un ragazzetto, per esempio di 12 anni, che si avvicina al rap ha come esempio un Paky, che comunque scrive anche molto bene, però io l’ho visto live e non mi è piaciuto per niente.

Rak: Ah, lui è fortissimo! Ti rispondo in modo netto, stiamo facendo un bel confronto, ci stiamo scambiando le nostre opinioni e mi fa molto piacere che tu mi abbia detto questa cosa, in questo modo mi dai anche l’occasione di chiarire alcuni punti: 

Paky spacca! primo punto.

Se io volessi vedere un rapper liricista che performa un live, senza doppie, come ai tempi “giusti”, come faceva Primo, per intenderci, semplicemente forse non è il concerto di Paky il posto perfetto. 

Paky è un’altra tipologia di rapper, dopodiché, ti dico la verità, non l’ho mai sentito dal vivo. 

Come la polemica su Rhove: i rapper di riferimento di Rhove suonano con i pezzi sotto, quindi non è che Rhove sia chiamato a fare qualcosa di diverso. 

Travis Scott suona coi pezzi sotto.

Se tu mi dovessi chiedere “preferisci un live di Travis Scott o di Rakim in Olanda”, è chiaro che sceglierei un live di Rakim, perché sono cresciuto con la mia idea di MC.

L’Hip Hop è una cosa molto più grande di come la vediamo noi in Italia, dove esistono mille sfaccettature diverse. 

Paky è un pischello che comunque rappresenta la sua realtà e sotto questo punto di vista c’ha il mio rispetto. 

Esistono tante realtà e tutte sono rispettabili, e ti dico pure di più, non penso che questa cosa si andrà a perdere, perché allora io rilancio e ti dico: Geolier

Geolier, Sanremo non Sanremo, nuova generazione, e dimmi se non rispetta i canoni di questa roba?

Il pubblico andrà a scegliere quello che preferisce. Geolier porta Brivido sul palco di Sanremo e sti cazzi della legittimazione del pubblico presente.

Il rapper che canta in playback puoi non ascoltarlo, lo cestini, come un ascoltatore che preferisce qualcosa di diverso da me, può cestinare il mio disco. 

Alla fine tutto torna sempre alla sua origine, questo genere qui è ciclico e torna sempre da capo.

Vedi che adesso sta ritornando il “rap fatto in una certa maniera”, perché secondo te? Perché quello è, da lì viene e lì tornerà sempre. 

Non dobbiamo temere le diversità, il tuo punto è chiaro e lo capisco, però io quello che voglio far passare con il mio disco è anche un messaggio di apertura nei confronti delle nuove generazioni.

Sono due settimane ormai che il disco è in circolazione, hai avuto tutti feedback positivi sotto qualsiasi punto di vista, ti aspettavi tutto questo successo?

Rak: Sono sorpreso! Non perché io non creda nel lavoro che abbiamo svolto col mio team, perché ne sono molto orgoglioso. Parlo al plurale perché è stato un lavoro molto serio, profondo e di grande confronto tra di noi e di cura dei dettagli. 

C’è anche un piccolo video che ho pubblicato il giorno dell’uscita del disco dove dico proprio questa cosa: il disco spacca, noi spacchiamo come team di lavoro e quindi non vedo perché non debba andare, non dico bene, ma nel modo giusto? 

Quando ritorni dopo sei anni non sai veramente se quelle persone te le sei veramente portate dietro, anche se in questo non è che avessi dubbi, anche sulla qualità del lavoro sono abbastanza consapevole.

Nonostante ciò non avrei mai potuto sapere se il disco avrebbe avuto il giusto riconoscimento, c’è ancora tantissimo lavoro da fare. 

La data al Monk, il 30 Marzo, a Roma sarà la vera prova del nove, da lì si saprà come sta andando l’album. Del resto siamo positivamente sorpresi; nessuno di noi avrebbe potuto pronosticare di uscire in editoriale su Spotify, addirittura su quattro playlist; di avere una copertina su Radici Hip Hop. Sono risultati importanti che comunque premiano il lavoro di tutti i ragazzi e le ragazze che hanno collaborato insieme a me in questo progetto dandomi fiducia. La mia più grande soddisfazione è vedere tutti i collaboratori e le collaboratrici entusiasti per i feedback che stiamo ricevendo, sia a livello istituzionale sia dalla gente, che poi, è la cosa che mi interessa di più. La mia gente ha apprezzato questo lavoro, e se lo sta pompando e sono felici di questo, per me è il massimo. 

Questo è il motivo per cui noi facciamo musica, non è tanto una playlist su Spotify, ma soprattutto i messaggi che ricevi da parte di persone che ti dicono Grazie, perché non ci speravano più, pensavano che avevi smesso. 

Approfitto dello spazio per ringraziare veramente tutti i ragazzi e le ragazze che che mi stanno inviando i loro messaggi.

Stai avendo il vero e proprio payback per tutto quello che hai fatto finora.

Rak: Ho veramente l’intenzione di rappresentare tutta la generazione nostra, tutto il mio pubblico; tutte le persone che mi seguono, io lo vedo, leggo quello che mi scrivono ed è gente che si fanno un culo come un secchio, quindi prendiamoci quello che ci spetta, prendiamoci il nostro payback. 

Non parlo di money, i soldi servono e vogliamo farli tutti cercando ogni giorno di spingere per alzarne il più possibile, non bisogna essere ipocriti  in questo. I soldi sono molto importanti, ma non danno la felicità. 

Il vero payback è quello personale: affrontarsi, conoscersi e crescere in base alle proprie aspettative non in base a quello che ci chiede qualcun altro. 

In questo disco non c’è quell’arroganza di fondo dell’autocelebrazione. Vi è una dolcezza genuina, passione e tantissimo sentimento.

Rak: Assolutamente! Ti dico pure che questo è sicuramente il disco più di Matteo tra tutti.

Sono passati tanti anni, quindi anche l’evoluzione personale psicologica che hai maturato, in chiave di consapevolezza, diventa qualcosa che risulta liberatorio, che aiuta a far uscire fuori. 

Tanti versi parlano proprio di questa sensazione qua: alla fine rimaniamo gli stessi, è vero, però io sono cambiato sotto tanti aspetti e credo anche di essermi evoluto. 

Ai tempi eravamo molto chiusi, avevamo vent’anni e volevamo solo spaccare il culo a tutti, oggi penso di non dover dimostrare più la mia capacità tecnica, ma la mia crescita alle persone che mi seguono. 

Ci sei riuscito alla grande! 

Quindi, la prima data parte dal Monk sabato 30 marzo. 

Rak: Si, ci sono le prevendite sul Dice. E’ un obiettivo ambizioso, perché abbiamo scelto una location storica di Roma con una capienza importante, quindi abbiamo bisogno di tutta la spinta necessaria in questi giorni. Ne approfitto per chiedere ai ragazzi alle ragazze che mi seguono di esserci, perché stiamo preparando qualcosa di veramente speciale per voi, come è stato tanti anni fa allo Strike, come è stato al Csoa La Strada, come è stato al Brancaleone e in tanti eventi che abbiamo fatto.

Quindi io spero veramente poi di poterne riparlare, magari ci risentiamo dopo il concerto. 

La seconda data è Bologna, il 6 Aprile, in apertura a Crimeapple per una data del suo tour. 

Iniziamo a portare il disco in giro anche in estate, perché vogliamo dargli il tempo di arrivare al pubblico per poi organizzare un tour come si deve. 

Allora non mi resta che ringraziarti per l’intervista ed invitare tutti ad ascoltare e a supportare Payback!

Claudia La Disagiata

Claudia Sciacca Aka La Disagiata, nasce a Catania sotto una buonissima stella del Leone. Cresce grazie al buon cibo siculo che le donano bellezza e cultura. Figlia di due medici, si occupa fin da piccola dei problemi altrui, dedicandosi ai rapper della propria città come una psicologa, perché “stanno malissimoh“. Si laurea all’accademia di Belle Arti di Brera grazie alla formidabile venerazione per tutti i santi che cita durante le giornate più dure. Vive a Milano con molta fatica perché fa diversi lavori, ma sicuramente non ha un lavoro serio. Scrive per ritrovare l’orgoglio smarrito” come Mària de Il divano scomodo di Maccio Capatonda.

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