Goodbye Marco, cuore e anima di un MONOLOCALE: L’intervista.

Goodbye Marco è tornato nel game con MONOLOCALE, un EP che punta a raccontare le esperienze, i sentimenti, le emozioni e le sensazioni dell’artista.
Attivo nell’ambiente del rap italiano da tantissimi anni, Goodbye Marco, ha deciso di rapportarsi al mic, esplorando tutta una serie di mondi interiori che, però, allo stesso tempo, affacciano sull’esteriorità.
Goodbye Marco, si è espresso attraverso la sua personalità, ed è riuscito a creare un progetto identitario che lo rappresenta a pieno al 100%.
MONOLOCALE è il primo tassello della nuova vita di Goodbye Marco. Il focus del rapper è quello di creare un mix tra contenuti e un sound in linea con quello che più risulta in sintonia con le vibes avvertite da Goodbye Marco.
MONOLOCALE è un po’ la fenice che risorge dalle ceneri e punto di partenza, dopo anni travagliati. Ho avuto la possibilità di intervistare Goodbye Marco e farmi raccontare l’album. Prima di passare alla lettura dell’articolo, schiaccia play e approfondisci il disco!
Ciao Goodbye Marco e benvenuto! MONOLOCALE è il tuo nuovo album. Mi specifichi il concetto dietro al titolo?
MONOLOCALE è il mio spazio, il mio rifugio. Una piccola scatola da cui osservo il mondo. Rappresenta la mia indipendenza, il mio luogo sicuro. È il punto da cui riparto, dopo anni bui: la mia rinascita, sia come persona che come artista.
Al tempo stesso, il MONOLOCALE, rappresenta un senso di soffocamento, in periferia, alle porte di una città che opprime, con dei costi di vita sempre più alti, che tende a far appassire le persone, invece di stimolarle a fiorire e lottare per i propri sogni. MONOLOCALE è la mia salvezza e la mia prigione, al tempo stesso.
“Non mi fido di chi splende soltanto sotto la luna”. L’apparenza, spesso, inganna. Questo rap game vive di troppa luce riflessa?
Esatto. Con “non mi fido di chi splende soltanto sotto la luna” intendo proprio dire che ormai è tutto talmente fake, che è troppo facile brillare e dire sempre la cosa giusta solo quando si è sotto la luce dei riflettori.
Il vero talento, la vera essenza, le buone intenzioni, sono spesso riposte in persone e artisti che non hanno spazio, chiusi a progettare e sognare nel buio, perché magari non si sentono rappresentati da questa realtà, o semplicemente non vengono presi in considerazione.
Manca tatto, curiosità, sensibilità, voglia di scoprire e “disobbedire” alle logiche di mercato che ci vengono imposte. Non noto quell’urgenza di non accontentarsi.

VELOCE, VELOCE, si interroga anche su questo modus operandi estremamente occidentale teso alla corsa sfrenata. Come trovare un equilibrio per non impazzire in questa matrice sociale?
L’equilibrio di cui parli lo sto cercando anche io. Quel che posso dire è che sarebbe già un passo gigante mettersi nell’ottica di cercarlo e trovarlo. Spesso si affronta questo tema, però poi nessuno fa qualcosa per imporsi.
Penso che la chiave sia quella di “disobbedire” e non lasciarsi condizionare da certi meccanismi. È giusto darsi da fare, mantenere il ritmo e via dicendo, ma non deve diventare una malattia.
Così facendo, si rischia di non gustarsi più le cose: i propri traguardi, i propri progetti, il cibo che mangi, qualsiasi cosa.
Non ci si gode più nulla e, di conseguenza, si perde la rotta. Non si è più felici, non ci basta più nulla. Imparare a stare nel “qui ed ora” è la chiave.
Serve volontà, altrimenti esprimiamo solo bei concetti, ma poi non facciamo niente per farli accadere. Anche io sono vittima di questa dinamica. Penso però che parlarne, e provare a far ragionare le persone, sia già un inizio.
“Con sti figli di papà che fanno i G coi Balaclava”. Oggi il rap italiano sembra incastrato in questa ossessione della vita di strada che spesso è finta e fine a se stessa. Come si è arrivati a questo punto, secondo te? E di è che la colpa maggiore, tra pubblico, artisti ed industria musicale?
Parto dal presupposto che sono cresciuto con lo “street rap/gangsta rap”. Se sei un G, hai passato cose pesanti e hai qualcosa da insegnarmi, io sto zitto e ti ascolto, ma se fai sta roba solo per “fare il bulletto”, allora mi annoio.
Amo ogni tipo di rap: da quello conscious, a quello grezzo, a quello più ignorante, ed ogni tipo di “wave” annessa. Però, comunque, mi devi trasmettere qualcosa. Il fatto che tutti abbiano capito il trucco e ripetano le stesse cose, mi logora davvero.
La colpa, spesso, è del pubblico che non ha cultura. Cultura è una parola che in Italia fa quasi paura e che rimanda sempre a qualcosa di “sbatti”, come studiare libri da 10.000 pagine.
In realtà, l’Italia è come un imbuto: arriva un trend e va solo quello. Non c’è curiosità di voler scoprire anche altro. O fai quello che fanno tutti o sei quasi uno sfigato.
In America ci sono i Migos, però c’è anche J. Cole. C’è Lil Baby, ma c’è anche Kendrick, ecc. Ed ognuno ha la sua fetta.
Non solo perché l’America è oggettivamente più grande rispetto all’Italia, ma perché c’è più cultura. Fare casino, sperare di essere virali, commettendo cazzate, rende, intrattiene, ma è tutto fine a se stesso.
Le case discografiche intuiscono il guadagno e agiscono di conseguenza. A nessuno importa davvero voler “andare oltre”. O forse a pochi.

Hai cominciato da adolescente a frequentare la scena rap italiana. Mi racconti, secondo te, in cosa è migliorata e peggiorata nel corso degli anni?
Sicuramente, i guadagni sono maggiori, i rapper possono davvero pensare di fare i soldi con questa cosa. L’artista ha più potere (per certi versi), rispetto a prima.
Si può sperimentare di più, senza avere la para di essere etichettati in un certo modo dai veterani e da “vecchie dinamiche”. Si può entrare in contatto con artisti dall’altra parte del mondo in due secondi.
È tutto più accessibile, più fluido, in un certo senso. E direi anche: “Finalmente!”. D’altro canto, lo fa davvero chiunque. Tutti hanno il microfono in mano, anche chi prima stava tra il pubblico.
Tutti urlano e pensano di avere ragione. Si è perso un forte senso di appartenenza, il sentirsi parte di qualcosa. Avere un ideale forte, che non sia solo vestirsi bene e ripetere quello che dicono i rapper in altri paesi.
Si è perso il senso di unione, va bene voler fare i soldi, in una società di merda che gira solo intorno ai soldi, ok, ma manca quella voglia di lasciare il segno, di voler portare qualcosa in più, che non sia solo lo “stare al passo coi tempi e con le mode”. Tutto molto bello, ma mancano emozioni forti.
Goodbye Marco, quest’album arriva in che fase artistica della tua carriera? Qual è la volontà che ti sei prefissato al riguardo?
Arriva in un momento in cui sono ancora giovane, ma sono cresciuto tanto. Non sono più un ragazzino. Arriva in un momento in cui, dopo aver vissuto davvero vittorie e sconfitte, ho qualcosa di reale e sincero da dire. L’intento è quello di lasciare il segno, di fare la differenza, di dare qualcosa in più, di non fare solo musica usa e getta.
Voglio ispirare le persone, e far capire loro che non sono sole, che non sono “sbagliate” se avvertono l’esigenza di andare nella direzione opposta rispetto a quella in cui vanno tutti. Proprio come hanno fatto certi artisti con me, quando ero piccolo.
Goodbye Marco, mi racconti come hai strutturato i contenuti dell’album e qual è stato il focus musicale del progetto?
Haru ha letteralmente svoltato la mia vita artistica. Con lui c’è un’alchimia pazzesca; di conseguenza, la mia visione è diventata più chiara, e strutturare il lavoro è stato facile. Ci siamo isolati al mare un anno fa.
Uscivamo, tornavamo a casa, scrivevamo e registravamo tutto il giorno. Abbiamo notato che molti temi, come quelli elencati nelle altre risposte, tornavano spesso. Quindi, in maniera spontanea, abbiamo dato luce a “MONOLOCALE”.
Abbiamo gusti molto simili: ci piace la roba classica, ma amiamo anche i trend. Ci siamo interrogati (neanche troppo) su cosa mancasse e su cosa volessimo fare. E lo abbiamo fatto.
Ci siamo detti: “Facciamo ciò che ci piace fare, ciò che vorremmo ascoltare, ma che manca”. Le sonorità variano da un sound più 90’s ma rivisitato, a sonorità rubate alla trap, a visioni più UK.
Tutte ispirazioni che, rimescolate e reinterpretate, han dato vita al nostro sound, mantenendo sempre una coerenza ed un “filo conduttore” che unisce traccia dopo traccia. Con il resto del mio team, abbiamo distribuito e organizzato il lavoro.
Con Adel e Ralph Lautrec rivedevo i testi che avevo scritto, per confrontarci. Con Massi e Ricky ragionavamo sui video, sulla strategia, sulla comunicazione. Tutto in maniera mega spontanea.