Interviste

Guernica come resistenza sonora: il ritorno al rap autentico di Pretty Riky e The Musher

Guernica non è soltanto il titolo di un disco, ma un vero e proprio manifesto artistico e personale che Pretty Riky e The Musher hanno voluto consegnare all’ascoltatore con grande intensità e sincerità.

Lontano da facili compromessi o da estetiche costruite a tavolino, questo progetto è un atto di resistenza sonora, un modo per riportare il rap alla sua essenza più vera: un linguaggio diretto, ruvido e senza filtri, capace di raccontare storie con onestà e profondità.

Per Pretty Riky, tornare al rap non è stato un gesto nostalgico o una scelta estetica, ma una necessità viscerale. Dopo aver sperimentato con suoni e linguaggi diversi, è stato proprio il rap, con la sua capacità unica di dire la verità senza dover chiedere permessi o addolcire i toni, a richiamarlo come a una casa originaria, anche se un po’ segnata dal tempo. E proprio questa autenticità – spesso dimenticata nelle correnti mainstream – emerge in Guernica con tutta la sua forza, tra ironia tagliente e profondità emotiva.

Il disco si muove con consapevolezza al di fuori delle regole del rap commerciale, senza schieramenti o contrapposizioni forzate, ma con uno sguardo lucido che preferisce camminare di lato, su sentieri più incerti ma personali. In un panorama musicale dominato da mode veloci e contenuti usa e getta, Guernica si presenta come una sfida: scomoda, irritante per alcuni, inevitabile per chi cerca un ascolto vero, che metta in discussione e risvegli.

La scrittura, volutamente priva di filtri e senza tentazioni di ego-trip, riflette un lavoro di autoanalisi e di sincera rappresentazione di sé, fatta di contraddizioni e spigolosità, senza bisogno di urla o artifici per farsi ascoltare. L’ironia, mai retorica, diventa un’arma preziosa per dare respiro alla profondità, mantenendo lucidità e distanza critica, e invitando a scavare sotto la superficie.

Il rap, per Pretty Riky e The Musher, conserva ancora oggi un potere politico fondamentale: quello di rompere schemi, di mettere in discussione i “valori” imposti, e di offrire uno spazio dove esprimere verità scomode, lontane dalle narrazioni costruite a tavolino.

Guernica si erge dunque come un atto di resistenza contro il silenzio, la superficialità e l’indifferenza, un gesto necessario per dire “no” a tutto ciò che ingoia la complessità e l’urgenza del nostro tempo.

Pretty Riky, hai attraversato fasi molto diverse nella tua carriera. Cosa ti ha riportato al rap come linguaggio “madre”?

Mi ci ha riportato la necessità, non la nostalgia. Il rap è il mio linguaggio madre perché è l’unico che non mi chiede il permesso per dire la verità. Non devo renderlo elegante, non devo fargli fare bella figura: gli basta essere sincero, anche quando è scomodo, anche quando taglia.
Dopo anni in cui ho esplorato altri suoni, altre posture, altre maschere… mi sono accorto che stavo parlando con accenti che non erano i miei. Non erano falsi, erano solo filtrati. Il rap, invece, è ruvido, è diretto, mi permette di sputare fuori quello che sento senza l’obbligo di piacere.
Non è stato un ritorno romantico. È stato un richiamo viscerale. Come tornare a casa e trovarla devastata dal tempo—ma sapere esattamente dove sono le chiavi.

In che modo la vostra musica oggi dialoga con il rap mainstream? C’è un confronto o un rifiuto?

Né confronto né rifiuto. Osservazione il più possibile lucida, semmai. Il rap mainstream oggi ha le sue regole, le sue estetiche, le sue coreografie precise. E va bene così. Ma noi non stiamo giocando la stessa partita. Non abbiamo interesse a schierarci contro, sarebbe solo un altro modo per inseguirlo. Preferiamo camminare di lato, dove il terreno è più incerto ma le orme sono nostre.

Il disco è fortemente identitario, ma non autoreferenziale. Quanto è difficile oggi scrivere di sé senza cadere nell’ego-trip?

La scrittura è sempre uno specchio fedele della persona che la produce, quindi per noi è stato facilissimo.
Non perché ci sentiamo infallibili o più “autentici” di altri, ma perché abbiamo scelto di non mentire, neanche a noi stessi. Quando scrivi senza filtri, senza cercare di gonfiare l’ego o di costruire un personaggio, il rischio di cadere nell’ego trip semplicemente non esiste.
“Guernica” è quello che siamo, con tutte le contraddizioni, le fragilità e le spigolosità. Non c’è bisogno di gridare per farsi sentire, né di gonfiare il proprio io per occupare spazio. Basta mettersi lì, con onestà, e lasciare che la scrittura parli da sola.

Cosa pensate della direzione che sta prendendo il rap italiano? Dove vi sentite in tutto questo?

Il rap italiano oggi è un po’ come uno specchio incrinato: riflette quello che c’è intorno, ma spesso non ha il coraggio di mostrare davvero cosa c’è dietro le crepe.
C’è tanta energia, tanta voglia di fare, ma anche tanta fretta e superficialità che rischiano di ridurre tutto a un riflesso piatto, senza profondità. A volte sembra che il rap rincorra solo l’eco di ciò che funziona commercialmente, dimenticandosi che il rap—almeno per come lo vediamo noi—è uno strumento per scavare dentro, per smuovere, per far sentire quello che nessuno osa dire.

Le nuove generazioni sembrano preferire il contenuto veloce e superficiale. Cosa può offrire loro un disco come Guernica?

Nel mare di roba usa e getta, di punchline mordi e fuggi, di beat che suonano tutti uguali, il nostro disco è come una puntura di spillo nel sedere. Se le nuove generazioni vogliono solo roba facile, “Guernica” è la fila in tangenziale che ti fa arrivare in ritardo: scomoda, irritante, ma inevitabile.
Non è fatto per piacere a chi ha l’attenzione di un pesce rosso

L’ironia è una chiave di Guernica, ma non smorza mai la profondità. Come si costruisce questo equilibrio?

Non si tratta di smorzare la profondità, ma di darle respiro. L’ironia ti permette di guardare le crepe senza farti schiacciare dal peso, di affrontare la brutalità dei fatti senza rimanerne paralizzato.
Costruire questo equilibrio significa non prendere mai niente troppo sul serio — tranne la verità. Ed è proprio lì che l’ironia diventa un’arma affilata: ti fa tenere la distanza giusta per non perdere la lucidità, ma ti spinge anche a scavare più a fondo, perché sai che sotto la risata c’è sempre un fondo di verità nuda e cruda.

Pensate che il rap abbia ancora un potere politico? E se sì, dove si nasconde oggi?

Il rap, per come lo vediamo noi, nasce proprio per contrastare quelle narrazioni costruite a tavolino, non per riproporle. Oggi va di moda parlare di “valori” — ma spesso sono quelli comodi alla politica, quelli che servono a mantenere lo status quo o a mettere una toppa superficiale sui problemi veri.
È assurdo, perché il rap nasce esattamente dall’opposto: dalla voglia di rompere schemi, di mettere in discussione chi detiene il potere e chi decide cosa è “giusto” e cosa no. I veri valori del rap sono scomodi, a volte fastidiosi, e non vanno mai bene a chi sta seduto sulle poltrone.

Avete scritto “Guernica” anche come atto di resistenza? Verso cosa?

“Guernica” è stato un atto di resistenza prima di tutto verso il silenzio.
Resistenza verso la superficialità che ingoia tutto, verso quel senso di apatia che ti convince che tanto “tanto non cambia niente”. Resistenza verso il rumore di fondo che soffoca le urla autentiche, verso la comodità di chi preferisce non vedere le crepe. “Guernica” è un gesto per dire: no, noi non ci stiamo. E questa resistenza è più necessaria che mai.

Federico

Steek nasce in un piccolo paesino della Sardegna negli ’80 per poi emigrare con la valigia di cartone e una sfilza di dischi hip-hop nella capitale. Durante la seconda metà degli anni ’90 viene folgorato dalla cultura hip hop in tutte le sue forme e discipline, dapprima conoscendo il rap Made in USA, arrivando poi ad appassionarsi al rap Made in Italy grazie ad artisti storici, quali: Assalti Frontali, Otr, Colle der fomento, Sangue Misto e molti altri. Fondatore della page “Il Rappuso” che lo porta a collaborare con tutta la scena rap underground italiana, mette la sua voce e la sua esperienza al servizio di LOWER GROUND con la trasmissione che prende il nome dalla sua creatura “IL RAPPUSO”.

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