Interviste

Louis Dee: il cuore e il coraggio di FLOW SUI GRADINI – NUOVO CYPER

Louis Dee è una voce che non segue le mode ma le mette in discussione. Con radici profondamente piantate a Palermo e uno sguardo sempre vigile sulla scena, torna con FLOW SUI GRADINI – NUOVO CYPER, un progetto che richiama l’estetica e lo spirito dei mixtape di un tempo, ma con una consapevolezza attuale e tagliente.

Non è solo un disco: è una dichiarazione di intenti, un manifesto creativo che mette al centro il rap vissuto, quello scritto con la fame vera e il bisogno di esprimersi, lontano dai filtri del marketing e dalle strategie da classifica.

Quella che segue è la trascrizione integrale di una conversazione telefonica con spontanea e sincera, che abbiamo avuto con Louis Dee.

Una chiacchierata lunga, appassionata, dove si toccano tanti temi cruciali: dal senso del mixtape oggi, alla critica musicale, passando per la scena siciliana, il freestyle, il concetto di flow, e le responsabilità (o l’assenza di esse) dell’arte in tempi complessi.

Louis Dee parla come scrive e rappa: diretto, profondo, con una visione lucida e una passione che traspare da ogni parola. In un panorama spesso appiattito, la sua voce è quella di chi sceglie ogni giorno di restare autentico, anche a costo di restare fuori dai giri più comodi.

Ciao Louis Dee e benvenuto!! FLOW SUI GRADINI – NUOVO CYPER è il tuo nuovo album. Il titolo richiama un certo immaginario street ed hip-hop. Da cosa nasce questa esigenza specifica?

A me sono sempre piaciuti moltissimo i mixtape, sia da ascoltatore che da rapper.  Ritengo che sia la formula più semplice per non impegnarti in un concept preciso, per cui puoi variare sia riguardo al sound che nelle liriche. Ci sono stati dei miei album tipo PALIFORNIA o Sangò che erano dei concept album e non riuscivo ad uscire troppo da quel tipo di concetto, appunto.

FLOW SUI GRADINI – NUOVO CYPER è cominciato durante la prima pandemia; in quel contesto, proposi il freestyle d’apertura. Inizialmente era solo una traccia, poi in quel clima di chiusura generale, decisi di continuare. A quel tempo, nessuno pubblicava dischi perché rappresentava un rischio enorme.

Quindi, tanti sono andati avanti coi singoli. Personalmente, poiché ero praticamente sempre in casa, cominciai a scrivere per necessità.

È così che è nata la saga. Ogni volta che ho pronto un disco ufficiale, probabilmente mesi prima, faccio uscire una raccolta di FLOW SUI GRADINI.

È come se fosse il mio mixtape ufficiale. Ad oggi, più nessuno utilizza la parola mixtape, a meno che non venga detta da qualcuno mediaticamente molto più esposto. Però, a me piace ancora portare avanti questo modus operandi, specie sull’aspetto del divertirsi, senza avere troppi pensieri o sbattimenti di un disco ufficiale che lavorato in un altro modo.

Il concept si oppone a questa industria discografica edulcorata e gonfia di rapper focalizzati più sul marketing che sulle barre. Come mantenere una delivery credibile in uno scenario così filtrato?

Per me c’è spazio per tutti. Oggi ci sono gli artisti da classifica o quelli che pensano a far emergere soltanto un immaginario piuttosto che il talento. Siamo abituati a vedere sovraesposizioni enormi. So che girano dei budget stratosferici per dei dischi che poi metti in play e sembra il solito compitino facile facile fatto in classe perché in quel periodo va quello e allora probabilmente tutti si dirigono da quella parte.

Non è per andare controcorrente, semplicemente proprio perché in quello scrivo tendo ad essere me stesso al 100%, probabilmente non riuscirei a mantenere quello standard, nonostante per me sia semplicissimo, dato che quel tipo di pezzi da classifica, li so fare anche io. Anzi, spesso quando mi è capitato di fare da ghostwriter, mi chiedono esattamente quello.

Lo faccio, li accontento. Riesco, ma solo ed esclusivamente per quello che riguarda gli altri. Rispetto a me: non accetto il fatto che in Italia, va solo quella fascia lì. Solo in questa nazione è così. I gusti, sono gusti, c’è spazio per tutti, tranne che in Italia.

Eppure, quando facciamo degli eventi come quelli che abbiamo svolto tra Milano e Torino, la gente è numerosa e soprattutto afferma che c’era bisogno di questo ritorno alle origini e che è come fosse una ventata d’aria fresca. Bellissime parole, ma poi tutto ciò non è corrisposto nell’industria, dove questi complimenti, non si sono ancora trasformati in realtà. Bisognerebbe rischiare un po’ di più, perché fin quando ci sarà soltanto quel tipo di musica, resterà esclusivamente un certo target di pubblico.

Ci sarà sempre meno richiesta, anche riguardo ai live. Può esistere il posto da 10-20 mila persone, così come il club da 4-500 persone imballato dove tutti si divertono come pazzi. I discografici, dovrebbero osare maggiormente.

In Major, in Italia, ci sono quella tipologia di artisti, ma se vado a guardare tutta l’industria americana, mi rendo conto che già dagli anni ’90, con le multinazionali c’era gente come Jadakiss, DMX che non ti faceva quel tipo di “canzoncina perfetta” tesa ad esaudire il tuo progetto numerico e bacino d’utenza che tutti vogliono ottenere.

Se un giorno i cosiddetti discografici italiani, riusciranno a capire che in realtà il business può essere 10 mila volte più ampio se si crea un altro tipo di pubblico e alternativa, le cose potrebbero nettamente migliorare. Chiaramente, se vedo artisti come Joey Badass, penso che il tipo è nato e cresciuto a pane e anni ’90, ma questo non vuole dire old school.

Secondo me la gente non ha assolutamente capito che non è quella roba lì, perché Joey Badass ti rappa su delle strumentali boom bap, però in maniera mega fresca. Spesso anche il boom bap viene scambiato per “vecchio”, non so perché. Solo in Italia accade questo.

Alcuni producer multiplatino come Big Joe, fanno roba street e vengono chiamati soprattutto per quel tipo di sound. Solo Joe riesce a fare entrare in classifica un pezzo come S.A.L.M.O.

È stata un’eccezione italiana. Se avessimo tutti un po’ più soldi da investire negli album e nei progetti, probabilmente potrebbe esserci anche un’alternativa negli ascoltatori, altri live ed altre cose grosse. Penso e spero che prima o poi accadrà.

Noi ci stiamo provando, ma perché sappiamo che esiste una richiesta, ma è ancora di nicchia e messa in secondo piano che poi chi non ascolta il rap in Italia, pensa che il rap sia quello mainstream.

Per quanto mi riguarda, sono un amante della black music in generale, dunque magari potrei creare dei progetti in cui non mi si riconosce artisticamente, ma lo farei comunque a modo mio.

In FLOW DEI GRADINI – NUOVO CYPER ci sono pezzi come Farne a meno che hanno quella vibe un po’ più soft ma inglese, con quel tipo di batteria lì. Non ho mai messo un limite a ciò che mi piace fare. Così come ti faccio il pezzo in dialetto palermitano super hardcore, poi passo ad Arcobaleno Trasparente che è quasi una ballade. Il mio focus è riuscire ad esprimermi e divertirmi.

Dovrebbero farlo più artisti, senza farsi troppe paranoie, ma capisco che i discografici e il mercato, sono un mondo quasi meschino. Io ne sono stato pressoché alla larga, ma in realtà spesso lo vedo da vicino e se un giorno volessi avvicinarmi da quell’altra parte, probabilmente lo farei solo nel momento in cui so che c’è qualcuno che crede veramente nella musica e non solo nei numeri.

I numeri sono un aspetto importante, ma il talento dovrebbe essere preso molto più in considerazione.

Louis Dee nel disco affermi: “visto che i media sono i primi a parlarti di niente”. Questa è sicuramente una frase sociale, ma può essere anche un riferimento alla critica musicale odierna?

Assolutamente si. La frase è generica, ma se la mettiamo sul punto di vista musicale è l’esempio perfetto di quello che ti dicevo in precedenza. Di artisti che fanno buona musica, ce ne sono in Italia e sono molti di più rispetto a quelli che vanno in classifica.

Se fai un sondaggio, ne scopri a bizzeffe. A me è capitato con Florence che ho scoperto da solo, perché sono uno che va a ricercare le robe. Poi ci siamo conosciuti e siamo diventati amici. Banalmente anche Spotify quando ti dà i suggerimenti, può essere un mantra.

La gente dovrebbe smettere di scrollare velocemente. Bisognerebbe soffermarsi su quella che è la musica in generale, piuttosto che sul personaggio del momento. L’Italia è piena di artisti fortissimi, che vanno aldilà dei 10-15 da classifica.

Non dipende tutto solo dagli artisti, vi sono vari fattori. La colpa è anche della critica: bisognerebbe rischiare un attimo per cambiare le carte in tavola, ma più che altro, per riuscire a giocare tutti e non solo alcuni, ovvero la solita schiera di nomi che fa gli stessi featuring in tutti i dischi perché ci sono accordi tra etichette. Per me, non ha il minimo senso questa cosa qua.

So che ci sono artisti grossi che stimano determinati rapper. Ho visto artisti in major esporsi positivamente nei confronti di un collega che non ha numeri. Lo elogiano, ma poi non lo chiamano nel disco perché non ha dei numeri da top. Che senso ha?.

Sia nella musica che in altri ambiti, i media potrebbero conferire più spazio alle nicchie, ma è sempre quello il discorso: bisogna osare. La critica non si focalizza su un artista sconosciuto, perché magari se fai un articolo su quel rapper, hai paura che pochi o nessuno lo legge. Gli editori, ragionano così: temono i pochi click. Capisco il discorso, ma non lo giustifico.

Sono cresciuto con The Source e Aelle, che cito anche in un pezzo. Quella è stata tra le poche riviste in Italia che ha avuto il coraggio di esporsi. Ai tempi, accadeva maggiormente. Essendo cresciuto con i dischi di Tupac, quando leggevo un’intervista dedicata a lui o ad altri artisti che mi facevano impazzire, ero felicissimo che fosse la mia rivista italiana a farlo. Oggi, invece, i magazine, giocano e spaziano. Ci sta, ma dovrebbe esserci anche un minimo di cultura.

A volte, questo tipo di cultura, non la vedo. Non tanto perché noi non siamo di stampo black. Non è quello, dato che fortunatamente l’Italia si sta evolvendo da questo punto di vista, così come in passato ha fatto la Francia.

Più culture ci sono, più musiche nascono. I magazine, dovrebbero rischiare, che poi tanto rischio non è, dato che se tutti fanno la stessa roba, andrà a finire che il mercato diventerà saturo e poi non hai più di cosa parlare, per cui te ne esci col gossip o i tatuaggi di tizio.

Sicuramente, quelli possono interessare a qualcuno, ma allo stesso tempo, avresti potuto fare un contenuto molto più valido sul tatuaggio e ne parli in maniera più complessa, complicata ed artistica, senza semplificare e scadere quasi nel trash per arrivare subito.

La gente, a leggere ste robe, non ragiona più. Se tu gli dai la pappa pronta è finita. Il bello del cervello e della mente umana è che hanno degli ingranaggi, ma se gli fai fare sempre lo stesso giro, si abitueranno a quel tipo di percorso ed omologazione. Si va ricercare troppo la quantità, rispetto alla qualità.

Puoi parlarmi dei featuring? Come nascono?

Tutte le collaborazioni nascono chiaramente da una profonda stima reciproca e da un intenso rispetto artistico.

Con Florence, non ci conosciamo da tantissimo, ma ho creduto tantissimo nel suo talento, così come feci con Frank D’Amato. Crebbi così tanto in lui che lo feci entrare nel roster di Juicy. Adoro il suo modo di scrivere e il suo gusto musicale. Tante produzioni sono sue. Big Joe stesso, se concede un beat ad un artista emergente, lo fa perché sa che è valido, pur essendo un nome poco noto.

Il talento è quello che ricerchiamo e premiamo. La prima roba che la gente guarda in una tracklist è: “vediamo quali nomi grossi ci sono”, cercano tutti quello.  Un modus operandi del genere è sbagliatissimo; a me quando capita di ascoltare il disco di Kendrick con dentro un tizio che non so chi sia, mi sale immediatamente la curiosità, non penso:” ma chi ha chiamato?”.  

Dato che Kendrick è forte, se lo ha coinvolto, significa che questo rookie potrebbe avere talento. Un motivo artistico profondo deve esserci dietro, altrimenti non capiterebbe.

Personalmente, faccio lo stesso. Anche Foe è un ragazzo estremamente talentuoso. Al momento, sta aprendo il tour di Jovanotti.

Magari, non se ne parla a dovere, ma io avendo ascoltato i suoi provini in anteprima, posso affermare che sono incredibili.

Con lui, ho un rapporto che dura da anni. Ci confrontiamo spesso. È un ragazzo giovane e a volte si può essere molto spaventati da quella che è l’industria discografica italiana oggi.

Però, quando trovi un artista giovane di talento che, nonostante sappia fare roba più soft, decide di scavare più a fondo e prova ad emergere con quello che gli piace effettivamente fare, secondo me hai fatto centro. Io con artisti del genere, voglio sempre collaborare. Per me questa è la figata: fare il talento scout.

FLOW SUI GRADINI 20 è un brano molto forte, dal contenuto estremamente importante, che scava nei drammi e nell’ipocrisia del sistema. Louis Dee, l’arte deve prendersi la responsabilità di raccontare certe dinamiche?

Penso che l’arte non abbia nessuna responsabilità, va tutto in base a ciò che sei come persona. Io attraverso l’arte, esprimo il 100% della mia persona. Se non fosse per la musica, probabilmente sarei molto più chiuso e terrei tantissimi pensieri dentro me. The Story nasce da un beat di Salmo che mi ha emotivamente coinvolto.

Ho scelto quella strumentale, nonostante mi avesse passato una cartella con dei banger incredibili. In quel preciso periodo, quel tappeto musicale, mi sembrava la cosa più giusta per sfogarmi.

Forse l’arte non ha mai avuto delle responsabilità; è sempre un dare qualcosa in più di sé stessi e non parlo solo della musica: che tu sia un falegname, un pittore, tutto viene sempre da te. Viviamo in un mondo che ci opprime tramite la TV – se guardi un TG – o anche con tutte le notizie dal web. Ad un certo punto, diventi un contenitore che scoppia e devi sfogare.

Quello è stato il punto focale del brano, perché purtroppo è una storia nuova, ma che si ripete. Non riuscivo ad esprimermi o dare un parere sulle guerre o le questioni sociali che stavamo vivendo, ma appena ho avuto quel beat, ho scritto tutto di getto.

Nel foglio, non c’era neanche un taglio. È stato uno sfogo intenso che mi ha anche aiutato a metabolizzare, riflettere. Sono super soddisfatto della traccia.

A Salmo è piaciuta tantissimo e per me è una grandissima soddisfazione aver potuto lavorare su una strumentale prodotta da lui. Salmo come artista è un top player, è incredibile. Riesce a trasmettere alcuni sentimenti su cui tanti altri artisti fanno fatica. Salmo esprime tantissima emotività anche come producer.

Vieni dal freestyle. Come valuti l’evoluzione del movimento, sia dal punto di vista artistico – qualitativo, che dell’esposizione mediatica?

Continuo a fare freestyle divertendomi, ma non partecipo più a contest, non tanto per una questione anagrafica, ma perché per me il freesta è un po’ come andare in bici, nel senso che non ti dimentichi mai come si fa e la parte divertente della cosa è andare totalmente a caso, improvvisando. Io un giro di freestyle, lo faccio proprio per divertirmi e non per emergere con delle punchline incredibili: quello lo lascio fare a Ensi o a squali come lui.

Questa disciplina è una parte essenziale del mio essere, più che della mia musica. Nei pezzi, mi impegno, molto di più.

Mi piace ancora troppo fare freestyle. Sono felice che in più città d’Italia, esiste un “Muretto”, non solo a Milano e questa cosa sì era un po’ persa. Difatti, in quel Piazzale Ungheria che ti citavo prima, purtroppo dopo la nostra generazione, non è stato più popolato.

Non ho più visto dei punti di aggregazione dove i ragazzi si riunivano insieme. I tempi sono cambiati, ma da un po’ di anni a questa parte, mi sembra che il concetto del freestyle sia stato compreso maggiormente. Il freestyle, non è solo farsi notare.

Oggi abbiamo esempi come Cuta che ha vinto Nuova Scena 2 e viene dal freestyle. Così come Ensi, ai tempi, ha trionfato in determinate battle. Tanti artisti sono partiti dal freestyle e poi discograficamente hanno creato dei bellissimi dischi. C’è anche un pubblico, oltre agli addetti ai lavori.

Quel tipo di mondo, sta nuovamente emergendo. Avevo il timore che naufragasse del tutto, invece, così come l’hip-hop, riesce a rinnovarsi sempre.

È inevitabile una domanda sul flow. Quanto è fondamentale per te questa caratteristica, come la affini, e quali sono le principali skill sulle quali ti soffermi per elevare i tecnicismi?

In effetti la parola FLOW SUI GRADINI nasce dal fatto che quando eravamo ragazzini, stavamo in un posto a Palermo che si chiamava Piazzale Ungheria, dove c’erano i gradini. Il concetto prende vita dal fatto che ogni pomeriggio, ogni sera, ogni notte, noi eravamo lì a fare freestyle.

È una roba presa con un po’ più di leggerezza. Passato quel periodo in cui eravamo più liberi, conobbi Noyz Narcos che mi chiamò, esclamando :”oh, flow sui gradini!” e da lì in poi è nato questa sorta di A.K.A. non mio, ma della situazione.

Fondamentalmente sono un eterno studente della musica black in generale. Tutto quello che riguarda il tecnicismo, deriva dal mio divertimento. Più una cosa è impegnativa e difficile e più mi stimola. Intanto hai delle responsabilità quando rappi su beat di Big Joe, Alex 3o5, di Denver, tutti i ragazzi che ci sono all’interno del progetto che sono dei musicisti incredibili.

Aggiungo che sarebbe un peccato, non riuscire a elevarsi ed uscire un po’ fuori da quella che è l’italianità del rap. Siccome ho ascoltato sempre rap americano, sono ancora molto preso dalla tecnica nel rap.

Ogni volta che mi capita di ascoltare una strofa incredibile di ScHoolboy Q, penso:” cavolo, voglio provare anche io a girarmi il flow in quel modo.” Se ci fate caso, durante i pezzi, spesso cambio flow tre quattro volte, poiché per me è tutt’ora divertente e non la vedo in una maniera abbastanza quadrata, come se fosse il compitino in classe.

Chiudiamo con una domanda sulla Palermo hip-hop: quali sono i pro e i contro al riguardo, e come hai visto mutare la scena in tutti questi anni?

A Palermo ci sono tantissimi artisti che non riescono ad emergere perché è ancora tutto Milano centrico. Delle volte, ho pensato anche io di trasferirmi lì, perché è tutto più semplice. Palermo non è stata valorizzata a dovere. Bisognerebbe maggiormente investire su questa parte dell’ Italia e provare a scoprire dei talenti. Se ci fai caso, tanti artisti che sono in classifica, sono del sud.

Palermo e la Sicilia, a livello rap, sono inesplorate, eppure tantissimi artisti vengono a scrivere qui i dischi. Questo accade perché abbiamo un’atmosfera differente e probabilmente la nostra passione è estremamente focosa , rispetto ai parametri del nord. Speriamo che nel futuro prossimo, possiamo avere un’esposizione differente.

C’è gente che fa tre lavori e poi la notte invece che andare in giro per locali a fare baldoria, se ne va in studio per continuare a lavorare alla sua passione, per far sì che magari diventi anche un lavoro. Io sono l’esatta testimonianza di tutto ciò: per quanto non ho mai smesso di essere rilevante nel rap game, non ho mai vissuto a 360 gradi di musica.  Per dovermi sostentare,  ho dovuto lavorare tantissimo al di fuori della musica. Non siamo tutti così fortunati da avere una famiglia benestante alle spalle.

Quindi, trovo che sia rispettoso nei confronti del sud, dare una possibilità a chi è giù. Palermo è pienissima di artisti, cosi come la Sicilia. Più si vive di sacrifici e più si ha fame, ma la fame che percepisco qui non è tanto quella di voler emergere da protagonista, quanto quella di voler lavorare con la musica. Non è semplice lavorare con la musica.

Tanti fanno dei numeri giganti che non corrispondono ai soldi che incassano. C’è anche una beffa enorme in Italia di cui il pubblico non è a conoscenza. Se gli ascoltatori sono dei ragazzini come mio figlio di 14 anni che ascolta solo rap perché è popolare, poi succede che si comincia a pensare che fare il rapper è come fare il calciatore e vorresti essere un rapper, solo per la bella vita.

C’è anche molta gente che non vuole arricchirsi, ma semplicemente entrare in uno studio e la sera andare a fare dei live ed essere pagato il giusto, in modo tale che il rap diventi il tuo lavoro. Il sogno  di molti di noi è sempre stato quello.

A me personalmente è sempre bastato dire:” faccio questo nella vita”, poi se le cose tendono a migliorare, alla grande.

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