Rap italiano

Amore e morte 

Storie di droga e dipendenze raccontate a ritmo hip hop

L’hip hop, la “grande madre” del rap, è controcultura.

Sono rime fatte di sangue, poesia e dolore. E vita, tanta. 

Un genere musicale nato dal basso che racconta di chi vive fuori dagli schemi della società per scelta o perché vittima di un’oppressione sistemica (capitalista ma non solo) non poteva non parlare anche di droga e di drogati. E per farlo gli artisti hanno elaborato diverse sfumature espressive, adeguando la forma alla sostanza delle proprie sensibilità e dei propri retroterra individuali e culturali.

Esistono modi non solo diversi, ma direi diametralmente opposti di raccontare la droga su una base hip hop. 

Talvolta la droga è al centro, talvolta appare sullo sfondo. Spesso è solo evocata, come un tetro fantasma che muove le fila di ciò che accade nelle periferie più problematiche, divenendo così causa e conseguenza di povertà, crimine e disagio. Tematiche protagoniste delle canzoni di rapper come Tupac Shakur, Notorius BIG, Nas, Jay-z e molti altri, che descrivono senza filtri gli aspetti più difficili della vita nei ghetti urbani statunitensi alla fine del secolo scorso, ai tempi della diffusione della cosiddetta “epidemia di crack”. Le sofisticate rime di Nas ci offrono uno spaccato drammaticamente realista della vita delle persone che abitano il ghetto nero americano il cui destino sembra fatalmente manovrato dalla vendita di droghe. Tupac sceglie di denunciare le responsabilità dei poteri forti (e “bianchi”) che si nascondono dietro la diffusione delle sostanze, una su tutte il crack. Rimanendo nel contesto di fine XXI secolo, non mancano artisti dai contenuti più estremi del filone “gangsta” (gli N.W.A con Eazy-E, Ice Cube, ma anche Dr. Dre, su tutti) che sembrano glorificare la criminalità e lo spaccio, nonché l’abuso di droghe, come a voler risemantizzare positivamente il ruolo sociale a cui la loro gente è stata relegata. L’uomo gangster di colore, dalle sfumature aggressive e misogine, diventerebbe così un “figo”, un modello che persino i ragazzini bianchi tentano di emulare. 

La descrizione dell’uso di droga e dei suoi effetti può assumere sfumature più intimistiche e personali, e passare per gli insights nella mente e nei pensieri di un tossicodipendente. Utilizzando un linguaggio realista più riflessivo, il racconto qui si focalizza su quei meccanismi che legano irrimediabilmente il drogato alla sua sostanza, spesso vista e vissuta come sola alternativa, illusoriamente salvifica, a una realtà che non piace, o che fa soffrire. 

Murubutu, oltre a essere docente di filosofia alla scuola secondaria, è uno dei migliori rapper italiani che si occupano di story-telling e ha parlato di droga. I suoi pezzi si distinguono per la ricercatezza e l’originalità del lessico, degli incastri, delle rime, nonché per la complessità e raffinatezza dei riferimenti culturali e delle metafore usate. 

Ingredienti sapientemente dosati in Quando venne lei, singolo tratto dall’album la bellissima Giulietta e il suo povero padre grafomane del 2011. Il testo si ispira alla drammatica storia di Andrea Pazienza, detto “Paz”, uno dei più importanti fumettisti del panorama italiano che ha lottato lungo tutta la sua vita contro il cappio della dipendenza da eroina, che lo portò via a soli 32 anni (la sua overdose sorprese profondamente amici e familiari in quanto Paz sembrava ormai essersi completamente ripulito).

Il testo segue passo passo il lento e fatale avvicinamento di un ragazzo pieno di talento all’eroina, non senza quella suspense tipica di ogni canzone dell’autore. 

Quella che probabilmente è la peggiore delle droghe viene qui metaforicamente associata ad una bellissima donna fatale “dalla pelle bianca e diafana”. La fragilità, la sensibilità e la genialità del giovane protagonista desideroso di dimenticarsi di sé e del suo triste passato familiare sono per Murubutu caratteristiche che lo rendono vittima predestinata della tossicodipendenza, ancor prima del fatidico incontro con l’unica “lei” della sua vita:

Maurizio non aveva una donna
E conosceva bene il modo giusto e i percorsi per fuggire da sé
Una matita ed un’onda
Di forme e contorni che invadevano il foglio eleggendolo re

L’incontro di Mauri con la sostanza segna un’iniziale svolta positiva nella vita dell’artista, il cui talento sembra rinvigorirsi e rinnovarsi grazie all’oblio sognante in cui la droga lo fa precipitare e “viaggiare da re”, fino a quando quest’ultima non diverrà l’unico vero scopo della sua esistenza. A quel punto persino la “sua arte” viene “messa da parte”, per lasciar spazio all’eterna e dannata ricerca della droga. 

La storia di Mauri si conclude così:

Quando disse ai suoi fogli: “Sì, è lei la mia partner”
Le sue vecchie carte bianche, la sua arte messe da parte e poi
E lei era così dolce da non poterne fare senza
Lui ne impugnava l’elsa, ne coglieva tutta l’essenza, poi

La vide aggirarsi tra le persone della stazione
Vide gli amici di poche ore morire per il suo amore
Vide gli zombie senza più cuore sputare dentro al flacone
E con una dose di metadone fare due dosi di metadone

L’associazione fra dipendenza dalla sostanza e amore per una donna sembra essere un tòpos molto usato dagli artisti del rap. Marracash nel testo di amore in polvere del 2011 descrive le fasi dell’amore perverso che lega il tossicodipendente alla droga, calcando quelle dell’amore romantico fra amanti. La canzone tenta di dare una risposta al perché un giovane si inizia a drogare, smantellando qualche cliché. Secondo Marracash è troppo semplicistico incolpare le famiglie, o i videogames, o le canzoni: la spinta ad amare (e odiare) una sostanza avrebbe a che fare con qualcosa di più intimistico, con la volontà di far parte di qualcosa, seppur questo qualcosa è «una morte collettiva». 

Interessante notare come però il testo si contraddica almeno in parte più avanti, quando viene comunque evocata la connessione fra uso di sostanze, e quindi la volontà di provare le famose sensazioni forti, e l’artificiosità del mondo in cui viviamo e delle sue propaggini (fra cui, appunto, la “tele”):

Sensazioni sensazioni
Finte come le espressioni dei presentatori
Come i seni delle ballerine, gli amori dei calciatori
Le famiglie unite negli spot dei pandori

A un mondo artificiale spetta

Un paradiso artificiale

Senza santi, eroi o fidanzate,

(…) è la storia di un ragazzo intelligente che fa cose stupide

In Italia la metafora dell’assoggettamento al potere di donna bella e fatale veniva usata ancor prima di Marracash e di Murubutu dal rapper Gel nel suo primo singolo Lei, tratto dall’album Il ritorno (2007). Gel, ex fondatore del gruppo rap romano Truceboys, mette a nudo la sua esperienza di consumatore di eroina, sostanza che l’ha portato all’overdose e al coma nel 2006. 

Il doppio senso fidanzata/eroina è evidente fin dalle prime righe del testo: 

Lei è qualcosa che mi basta
Piccola piccola pure in tasca
Bella e vellutata proprio come pesca
Un’esca, per la mia vita grottesca
Voglio io non pensarci più
A domani sogni fritti che non amo più
Voglio pensare a un mondo migliore
C’è lei che mi leva tutto lo squallore

Ci troviamo di fronte a qualcosa che si discosta dal ritmo puramente hip hoptipico del periodo dei Truceboys, lasciando spazio ad una sorta di ballata dalle melodie pop, soprattutto nel ritornello, i cui versi offrono un potente e realistico insight nella quotidianità di un tossicodipendente. 

è con lei che mi sveglio ogni mattima
è con lei che prendo sonno di sera 
se c’è lei mi rilasso un momento
se c’è lei un’altra volta e poi smetto

Non è un caso che sotto il video di Lei su YouTube la maggior parte dei commenti ribadisca il medesimo concetto: «purtroppo puoi capire questa canzone solo sei hai conosciuto l’eroina (o la cocaina)».

Lo story telling incentrato sulle dipendenze assume un saporeparticolarmente realistico e incisivo quando, come nel caso di Gel, l’artista parla in prima persona della propria personale esperienza con la droga. La musica in questi casi diventa un manifesto della propria liberazione, che promuove e segna un momento di trasformazione, quasi un vero e proprio rito di passaggio. 

In questi testi l’artista, alla ricerca forse di risposte, grida al mondo la sua vittoria, ripercorrendo i momenti più traumatici della propria esperienza di tossicodipendente. 

Si percepisce la gratitudine del post-coma, l’ebbrezza del “miracolato”, data dal poter essere ancora lì a raccontare al mondo quella storia. 

Del suo particolare “ritorno” rappa anche Eminem nell’album Recovery (2010). 

Recovery, il primo album di Eminem ad essere definito introspettivo e riflessivo, è ispirato in larga parte all’esperienza di overdose che lo colpì nel 2007, al culmine della sua fama, ma anche della dipendenza da benzodiazepine e altri psicofarmaci. In quest’album dal sapore intimo e personale, l’artista dedica diverse tracce alla sua risalita dal fondo toccato con le dipendenze da farmaci. 

Tornando al panorama italiano, e riallacciandoci a Gel, non si può non menzionare la sopracitata crew romana dei Truceboys, che spopolò nell’underground dalla fine degli anni ’90.

Il gruppo, composto inizialmente dai quattro rapper fondatori Metal Carter, Cole, Gel e poi Noyz Narcos, fu fra i pionieri del rap italiano. L’atmosfera di death rap scelto è da subito evidente, e ha delle radici tanto eterogenee quanto lo erano i retroterra artistici e culturali dei suoi membri. 

In Sangue, primo e unico album firmato Truceboys (poi nascerà, con nuovi membri, la crew Truceklan), sono già evidenti le ibridazioni con altri generi considerati minori e alternativi: il punk, l’heavy metal, la musica techno, e soprattutto, al livello cinematografico, il genere horror e splatter. 

L’influenza di questi generi musicali e non, si può riscontrare sia nell’estetica delle copertine e dei video-clips, che nelle basi, che negli argomenti trattati. Interessanti anche le intro dei pezzi prese da oscuri dialoghi di film di serie B. 

Il disagio esistenziale, la marginalità di una vita borderline, l’attrazione per l’occulto e il male (talvolta con sfumature quasi caricaturali), e appunto, l’uso e abuso di droghe, condiscono l’essenza di ogni testo e di ogni grafica. Seppure non manchino degli elementi di autocompiacimento per una vita vissuta nell’illegalità, di base in Sangue le droghe non vengono idealizzate in quanto tali. Ma semmai quali strumenti di autodistruzione, controparte necessaria di una vita, appunto, di “sangue”, rabbia e follia. Qui le droghe fungono come uno dei diversi dettagli (insieme ad armi, improbabili racconti di suicidi e distruzioni di massa) di un’estetica “truce” e horror, non senza rinunciare a descrizioni più introspettive e psicologiche (vedi il giardino degli dei, che canta dell’amore vissuto come ossessione). 

In questi testi è presente un’ ironia grottesca legata alla narrazione di una condizione psicologica instabile e di una costante tensione verso l’autodistruttività:

C’è una festa nella lista io sono l’unico invitato
Morboso festeggiato reclutato al pasto nudo
Ballo da solo in una clinica disabitata
Occupo la stanza di una donna morta decapitata
Ci vogliono sostanze per celebrare
Sono circostanze che incrementano il mio danno cerebrale
(…)

In questa strofa, con cui si apre Malasorte, canzone poi divenuta iconica per i fan dei Truceboys, si possono leggere degli elementi espressivi particolarmente originali all’interno della scena rap.

Questi consistono sicuramente nel continuo rimando all’allucinazione delirante, distruttiva e autodistruttiva di cui si è già accennato, ma anche nella totale assenza di quell’ autoesaltazione che ha connotato il genere fin dai suoi esordi. Gli artisti non si pongono come migliori di altri, non celebrano la loro identità, né la loro vita o i loro averi, che al contrario vengono incluse fra i bersagli polemici dei loro testi. La spacconaggine tipica della stragrande maggioranza dei rapper old e new school qua è quasi del tutto assente (talvolta può far capolino, ma in modalità comica).

I trucidi sembrano fare della loro vita estranea alle regole della società e ai margini una bandiera. 

Una bandiera sotto cui tutti gli strani, gli isolati e i disagiati possano trovare rifugio, rivendicando una diversità di cui andare fieri. Come ha dichiarato in diverse occasioni Metal Carter, nella Roma degli anni ’90 l’hip-hop era tutto tranne che figo o glamour. Era una cultura (o meglio erano controculture, al plurale) decisamente alternativa e “anti” tutto. Un rifugio per giovani ribelli che non si sentivano rappresentati dalla cultura pop, dalle pubblicità, o dalla retorica romantica allora di tendenza nella società mainstream

Un altro figlio di questa (contro) cultura, la cui lunga carriera ha negli anni preso una direzione diversa e più affine ai gusti del grande pubblico, è senz’altro Fabri Fibra.

Mr Simpatia, uscito nel 2004, è senza dubbio un album rivoluzionario. Certamente un album che ha movimentato le acque non solo del rap, ma in generale della musica italiana. Nonostante alcune delle tematiche trattate (come appunto quella dell’abuso di droghe) fossero già presenti nel panorama hip hop underground italianoMr Simpatia ottiene una cassa di risonanza molto più ampia. Quest’album ha contribuito a modificare profondamente la percezione del rap in Italia, e a dare visibilità a un genere altrimenti di nicchia. 

Il disco, con i suoi contenuti borderline e aggressivi, è frutto di un deliberato tentativo dell’artista di creare rumore, per poter poi entrare in major, cosa che puntualmente accade.

Anche qui i testi mirano a scandalizzare e scioccare il pubblico, ma rispetto ai Truceboys possiedono una vena più personale e quotidiana. Fibra descrive la sua vita, una vita non troppo diversa da molti suoi coetanei che vivevano nelle province italiane, una vita che affoga in un certo squallore esistenziale, senza sogni né ideali. La sua innovazione sta nell’aver raccontato senza esaltazioni il mondo e la mente di un qualunque ragazzo ribelle di provincia. La componente delirante è presente come nei testi dei Truceboys, con la differenza che la sua narrazione è qui una questione quasi completamente privata. Anche quando critica la società e le sue assurdità e piccolezze (spesso comiche), Fabri Fibra lo fa attraverso la sua lente unica e personale. E soprattutto grottesca. Una lente allucinata sembra deformare una realtà cheattraverso l’aggressività, lo sberleffo e qualche nota horror-splatter, sembra spogliarsi in parte del suo intrinseco squallore. 

Le droghe sono un elemento fondamentale di tale resa grottesca.

Non si tratta solo di menzionare l’uso degli stupefacenti nei testi: l’album stesso sembra essere il flusso di coscienza generato dall’ingestione di un acido, assunto forse per sfuggire alla banalità dell’Italia provinciale. 

(…) Per me il rap è uno stress perché ho fatto fiasco 
e adesso io lavoro nell’ufficio di un fallito 
sogno ormai da anni di ucciderlo con armi di ogni tipo 
la mia ragazza mi ha detto “vattene che sei impazzito”
ancora per lo shock io aspetto in chiesa con l’anello al dito 
e cazzo non capisco la Madonna piange sangue

(…) 
più che uno stile è uno strazio

questo mio rap ti fa schifo al cazzo 
tutto ciò che resta a me mi ha reso pazzo 
mi punto una pistola questa sera mi ammazzo

Gli esempi di artisti rap che parlano di droga è potenzialmente infinito. Il filone di tendenza del  panorama contemporaneo è quello della narrazione autocelebrativa di cui le droghe non sono che un tassello di un castello di spacconeria. La droga e la sua fruibilità divengono uno status symbol, un feticcio fra i feticci quali belle donne, collane d’oro, rolex e macchine costose. Un pò ciò che la cocaina rappresenta nei circoli dell’alta borghesia capitalista (contesti talvolta teatro di tragedie: basti pensare al caso di Alberto Genovese, accusato di utilizzare ingenti quantità di droghe per manipolare e abusare di giovani donne). 

Soprattutto nel panorama della trap, americana e quindi europea, il sottotestodi ogni lyrics e di ogni video (incentrati esclusivamente su contesti maschili: l’agency femminile è assente persino quando si parla di vizi) è prettamente autocelebrativo. Mentre per gli artisti prima citati, e di molti altri autori spesso di nicchia, la droga e la sua narrazione è uno strumento come un altro per denunciare l’abbandono straniante delle periferie e delle province, il dolore e un forte senso di malessere esistenziale teso all’autodistruzione che segna la vita dei giovani da ormai due o tre generazioni. 

Nilowfer Awan

Nilowfer Awan, nata a Roma in una famiglia multiculturale, è cresciuta a pane e hip hop. Fin dalle scuole medie, oltre al suo grande idolo Vasco, si appassiona al genere rap. Dopo un primo interesse per gli artisti americani, scopre l'hip hop underground: crew romane come i Truce Boys e i Colle Der Fomento, ma anche il marchigiano Fibra, scandiscono le sue giornate e riempiono il suo Ipod. Più recentemente, anche nella veste di fotografa, scopre le altre ramificazioni di questa cultura, in particolare la street art. Particolarmente legata ai quartieri di San Lorenzo e Tor pignattara, le piace andare con la sua leica a caccia di graffiti e murales nella Città eterna.

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