Interviste

Gente che odia la gente: Due chiacchiere con 1989

“Gente che odia la gente” è il titolo del primo album del rapper cassinate-romano 1989.
Un debut album che parla a coloro presenti sul suo stesso gradino della scala sociale: quelli che sono oppressi dai ricchi, ma continuano a prendersela con i poveri, proponendo un raffinato connubio di alternative rap e cantautorato. Ma “Gente che odia la gente” è molto di più e abbiamo voluto farcelo raccontare proprio da 1989.

Ciao 1989! Partiamo dal titolo: quale concept si cela dietro “Gente che odia la gente”?

Ciao ragazzi. Una sera vidi una macchina sfrecciare in una via di San Lorenzo a Roma, quasi non curante del fatto che stava per investire la folla di ragazzi che erano lì a bere e a passare la serata. Ecco, mi è venuto da pensare come “la gente” stia perdendo il controllo, e mi è balenata in testa la frase “Gente che
odia la gente”. Siccome mi piaceva, ho deciso di utilizzarla come titolo del disco, il cui concept di fondo è proprio l’odio tra le persone, che sembra essere il sentimento che riscuote più successo in questi tempi bui.

Nel brano “La Gente” hai tenuto a specificare che la gara di followers non è un tuo obbiettivo e probabilmente non è il fine del tuo disco. Quali obiettivi ti sei posto con “Gente che odia la gente”?

Il fatto è che non mi interessa avere numeri alti solo in quanto tali, in termini di ascolti e followers sui social, se essi non hanno un riscontro nella vita reale. Questa ossessione per i numeri non porta a nulla di buono: gente che ti contatta per farsi pagare in cambio del far ascoltare la tua musica ai suoi bot, artisti che hanno milioni di ascolti su YouTube, ma che se organizzano un loro concerto li vanno a vedere in dieci persone. Certo, io non disdegnerei avere un milione di persone che mi seguono e che vengono ai miei concerti, purchè lo facciano perchè si ritrovano in quello che dico, e non solo perchè ho fatto un pezzo di successo, o perchè ho la spunta blu sul profilo Instagram, per dire. Il fine di “Gente che odia la gente”, comunque, è quello di accendere i riflettori su ciò che sta accadendo intorno a noi. E, ovviamente, anche quello di sfogare certi miei malesseri.

Ascoltando il disco si ha l’impressione che tu abbia voluto spaziare tra più generi musicali. Quali sono quelli che ti hanno condizionato maggiormente nel tuo percorso?

Vi ringrazio per esservene accorti! Non ci sono dei generi in particolare. Posso dirvi però che, avendo scritto e composto il disco nell’arco di due anni e mezzo circa, i pezzi hanno subìto di volta in volta tutte le influenze dei generi e degli artisti con cui ero in fissa in quel momento. Mi faccio molto influenzare da
quello che ascolto, e ascoltando davvero una miriade di generi diversi, alla fine rientrano tutti per forza di cose nella mia produzione del momento.

Anche gli artisti con i quali hai scelto di collaborare per questo progetto appartengono a generi diversi e portano con loro le proprie sonorità. Raccontaci perché li hai scelti e come pensavi avrebbero legato tra loro prima che il disco prendesse la forma finale.

Ho scelto consapevolmente di cercare di coinvolgere nel disco artisti che staccassero di netto con il rap, quindi cantautori, rocker, parolieri. Pierpaolo Capovilla, Lucio Leoni e Battista sono artisti fantastici, e sono tutti e tre artisti eclettici, caratteristica che a me in genere piace molto! Per i featuring rap, invece, ho preferito restare dalle mie parti e contattare due amic* della mia Cassino, Shekkero e Occhicomeventi.

Ascoltando i brani che compongono l’album abbiamo avuto l’impressione che avessi tanto da dire, un po’ come se stessi aspettando da tempo di poter “vuotare il sacco”. “Gente che odia la gente” è un disco che ha avuto un processo di creazione lungo?

Abbastanza lungo, sì. I testi sono tutti il risultato più o meno delle stesse sensazioni, però alcuni sono più vecchi, altri un po’ più recenti. Tutte le canzoni sono però frutto del mio periodo “invettive”, del mio periodo George Orwell, del periodo in cui sono stato più “anti-società” che mai. Essere anti-società per
molti può sembrare il classico cliché del rap, o una roba da adolescenti. Per me è importante invece rendersi conto di stare scomodo in certe dinamiche, prenderne atto, dirlo ad alta voce: è un passo verso l’arrivare a stare comodo il più possibile nella propria vita. Ognuno può avere un suo modo di esistere e affermarsi nella società: c’è chi lo fa sguazzandoci dentro, e chi lo fa prendendone le distanze.

Negli ultimi giorni si è parlato molto di censura dei testi trap e rap. Qual è la tua posizione sull’argomento? Credi si debba fare qualcosa per limitare la violenza in alcuni testi o pensi che la censura sia sempre sbagliata?

Penso che la censura sia sempre sbagliata. Intanto perchè è una limitazione della libertà di espressione, e poi perchè non credo risolva i problemi che vorrebbe risolvere. La violenza è ovunque, e ce la sbattono in faccia quotidianamente giornali e telegiornali, come prima notizia. La cronoca nera è sempre la prima della lista delle notizie. Quindi non credo il problema siano i testi rap e trap. Il problema è alla base, è di ignoranza, è culturale: bisognerebbe dare alle persone gli strumenti per capire che anche se una canzone, un film o una serie tv narrano la violenza, non è che poi debbano essere quelli i modelli
da seguire… È un argomento spigoloso e se ne potrebbe parlare a lungo, ma posso dirti fermamente che per me la censura non è una soluzione.

Abbiamo avuto il piacere di vederti live insieme a Kento e abbiamo potuto apprezzare le tue doti sul palco. Credi che il messaggio che hai scelto di mandare con questo disco possa trovare nei live la sua forma migliore?

Senz’altro. Quando l’impianto del posto in cui suono è buono e il fonico è bravo, oppure quando suono in acustico, e quindi le parole escono bene fuori, chi mi ascolta rimane sempre colpito da quello che dico. In ogni caso, ho cercato di lavorare ai pezzi in modo tale che anche la parte musicale fosse coinvolgente il
più possibile, proprio per rendere il live piacevole anche quando suono i contesti in cui le parole non si capiscono bene. “Se non capisci le parole, puoi sentire il funk”, diceva qualcuno.

In un’industria nella quale vengono spesso premiati gli amici degli amici e nella quale altrettanto spesso la coppa del migliore viene rimbalzata tra artisti sempre molto collegati tra loro, dove si colloca un “Hikikomori” del rap?

Non è facile come risposta. Non mi sento un “Hikikomori” del rap, a dire la verità. Certo, determinate logiche, determinati sound e certi compromessi del music business sento che non mi riguardano e non mi riguarderanno mai. Però voglio comunque che la mia musica esca dalla camera da cui viene prodotta, per arrivare a più gente possibile. Ma deve essere la musica che dico io, le parole che scelgo io, collaborando con le persone che voglio io. Spero di riuscire a mantenere per sempre questa integrità, e allo stesso tempo ad arrivare a tantissime persone. È qui che mi colloco, esattamente a fare quello per cui sono nato.

Il disco è fuori da 2 settimane, un tempo sicuramente troppo breve per poter tirare le somme, ma quali sono le tue prime impressioni? Ti aspettavi questo riscontro o qualcosa di diverso da chi sta ascoltando “Gente che odia la gente”?

Mi aspettavo quello che sta succedendo: chi lo ha ascoltato lo ha apprezzato molto, per i testi, le musiche, la maturità, la complessità, e le critiche che sono arrivate sono su punti che già avevo individuato come “difetti”. Non è arrivato ancora a moltissime persone, e anche questo me lo aspettavo. Ma sono sicuro che con il tempo, semmai riuscirò ad emergere meglio, questo lavoro arriverà anche a tutti quelli a cui non è arrivato adesso.

Prima di salutarti e ringraziarti, ti chiediamo di lasciarci con un messaggio che non sei riuscito ad inserire nel disco, ma che vorresti comunicare.

Al contrario della gente che si odia, adoro le persone che riescono a stringere rapporti veri, profondi, duraturi. Chi riesce a entrare in confidenza e in connessione con qualcun’altro, chi riesce a parlargli apertamente, ma con rispetto sotteso. È una qualità che invidio tanto in chi ce l’ha. Grazie a voi per lo

Federico

Steek nasce in un piccolo paesino della Sardegna negli ’80 per poi emigrare con la valigia di cartone e una sfilza di dischi hip-hop nella capitale. Durante la seconda metà degli anni ’90 viene folgorato dalla cultura hip hop in tutte le sue forme e discipline, dapprima conoscendo il rap Made in USA, arrivando poi ad appassionarsi al rap Made in Italy grazie ad artisti storici, quali: Assalti Frontali, Otr, Colle der fomento, Sangue Misto e molti altri. Fondatore della page “Il Rappuso” che lo porta a collaborare con tutta la scena rap underground italiana, mette la sua voce e la sua esperienza al servizio di LOWER GROUND con la trasmissione che prende il nome dalla sua creatura “IL RAPPUSO”.

Articoli Correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


The reCAPTCHA verification period has expired. Please reload the page.

Pulsante per tornare all'inizio